mercoledì 27 giugno 2012

ORIANA FALLACI: OSSESSIONE PER LA MORTE

«Il mio odio per la morte, la mia battaglia contro la morte… La libertà è solo uno tra i tanti altri argomenti. Ciò che davvero mi spinge a scrivere è la mia ossessione per la morte.»

I suoi libri sono tradotti in decine di lingue.



Oriana Fallaci nacque a Firenze il 29 giugno 1929, negli anni del potere mussoliniano.
Durante la giovinezza, lo stato politico e sociale dell’Italia ebbe un notevole influsso sulla sua vita, così come la figura del padre, un liberale contrario alla corsa al potere di Mussolini, il quale continuò l’opposizione per tutto il periodo fascista. Quando l’Italia decise di entrare attivamente nella Seconda Guerra Mondiale, Oriana Fallaci aveva poco più di dieci anni. Unendosi al padre nel movimento clandestino di resistenza, divenne membro del corpo dei volontari per la libertà contro il Nazismo. Nell’occupazione di Firenze da parte delle truppe naziste, il padre fu catturato, imprigionato e torturato, prima di essere rilasciato vivo. A quattordici anni, ricevette un riconoscimento d’onore dall’Esercito Italiano per il suo attivismo durante la guerra. Il conflitto finì nel 1945 e di lì a poco, Oriana avrebbe deciso di diventare una scrittrice: «La prima volta che sedetti alla macchina da scrivere, mi innamorai delle parole che emergevano come gocce, una alla volta, e rimanevano sul foglio… ogni goccia diventava qualcosa che se detta sarebbe scivolata via, ma sulle pagine quelle parole diventavano tangibili.

Molti sono i ricordi della figura paterna, alcuni dei quali affiorano in un’intervista di Luciano Simonelli del 1979, svoltasi nella suite del Grand Hotel Excelsior di Roma e durante la quale la scrittrice rivela: «[…] Andavo a caccia, mi ci portava mio padre. Avevo nove, dieci anni quando, al capanno, il babbo m’insegnò a sparare. E continuai fino verso i venticinque anni, trenta. Poi un giorno mi accorsi che il fucile era sporco. Sai, lo sporco che impolvera l’interno delle canne quando non lo si usa. E mi chiesi da quanto tempo non l’adoperavo. E scoprii che era un tempo lunghissimo […]»

E poi il ricordo della madre, cui s’intrecciano i giorni trascorsi insieme a Panagulis, l’uomo, poeta e martire di Un Uomo (1979), cui la scrittrice è stata legata sentimentalmente: «Le due creature che amavo di più. Le amavo tanto che dividere il mio amore per loro era una fatica quasi drammatica; voglio dire, il tempo che passavo con l’uno mi sembrava rubato a quello che avrei dovuto passare con l’altra e… Una della scale, tra piano terreno e primo piano, nella mia casa di campagna, è quella che unisce l’appartamento dove viveva la mamma e l’appartamento dove vivevamo io e Alekos. Ebbene, quando ero lì con entrambi, era tutto un correre su e giù per quelle scale… Su e giù, su e giù. Poi, di colpo, nel giro di pochi mesi, l’immobilità. Se ne erano andati tutti e due.»
Oriana Fallaci iniziò la sua carriera di giornalista con un articolo di cronaca, ma le sue doti spiccate le valsero in fretta degli incarichi importanti. Presto cominciò ad intervistare figure politiche di rilievo e a seguire gli eventi internazionali. Ha lavorato per il settimanale «Europeo» – fino a quando la pubblicazione ha chiuso i battenti – e collaborato con altre testate, sia in Europa, che nel sud America. Ha intervistato figure del calibro del direttore della Cia William Colby, il primo ministro pakistano Ali Bhutto, l’iraniano Ayatollah Khomeini, concentrandosi sul loro ruolo di figure dominanti nel sistema politico internazionale.

«Non mi sento di essere e non mi sentirò mai come un freddo registratore di ciò che vedo e sento, scrive nella prefazione a Intervista con la storia, il libro che le ha raccolte tutte (1974). «Su ogni esperienza personale lascio brandelli d’anima e partecipo a ciò che vedo o sento come se riguardasse me personalmente e dovessi prendere una posizione (infatti ne prendo sempre una basata su una precisa scelta morale).»
Una delle sue interviste politiche più famose, almeno nella memoria degli americani, rimane quella con il segretario di stato americano, Henry Kissinger. Prima dell’intervista con Oriana Fallaci, Kissinger era stato sempre restio a rivelare alla stampa fatti riguardanti la sfera privata. Durante l’intervista, la Fallaci aveva chiesto al segretario di stato di spiegare la celebrità che, come diplomatico, aveva raggiunto. Inizialmente Kissinger evitò la domanda ma, in seguito all’implacabilità della Fallaci, rispose: «A volte mi vedo come un cowboy che guida la carovana da solo sul suo cavallo, un western se preferisce.»
È interessante notare, tuttavia, come la Fallaci consideri la sua intervista con Kissinger una delle peggiori mai fatte (l'allora Segretario di Stato annoverò l'aver rilasciato l'intervista tra i propri maggiori errori).
Tra le altre, si possono ancora ricordare quella con Federico Fellini e Sean Connery, Yassir Arafat e Von Braun. Per il suo passato di membro del Movimento di Resistenza con cui combattè i nazisti durante la guerra e per i suoi sentimenti verso quegli stessi uomini che avevano arrestato, imprigionato e torturato il padre, la Fallaci fu portata ad avere una forte reazione verso Wernher von Braun, ex soldato e scienziato del regime nazista. Lo ammette nel suo racconto dell’intervista, anche se la trascrizione della stessa mostra una straordinaria e assai professionale imparzialità. L’odore di limone nel respiro di quell’uomo e la memoria di quel profumo la disturbò. Lei stessa ne disse: «Ricordo i soldati tedeschi, tutti lavati con il sapone disinfettante che odorava di limone. Tutti sentivamo quell’odore.»
La dedizione della Fallaci all’espressione di sé iniziò molto presto. Ricorda di aver scritto “brevi storie ingenue” a nove anni. «Ma — continua — iniziai a scrivere davvero a sedici, quando divenni reporter a Firenze. Ho iniziato con il giornalismo per diventare scrittrice.» Quando le chiesero quali circostanze fossero state importanti per la sua carriera, la Fallaci rispose: «prima di tutto il fatto di appartenere ad una famiglia liberale e impegnata politicamente. E poi, il fatto di aver vissuto — durante l’infanzia — i giorni eroici della Resistenza in Italia attraverso mio padre che ne era leader. E ancora, il fatto di essere fiorentina. Insomma, è il risultato di una certa civiltà e cultura. Comunque, a volte mi chiedo se il fattore più motivante non sia stato il fatto di essere nata donna e povera. Quando sei una donna, devi combattere di più. Di conseguenza, devi vedere di più e pensare di più ed essere più creativa. Lo stesso quando nasci povero. La sopravvivenza è una grande motivazione.»
Il fine della sua scrittura, secondo quanto lei stessa ha riferito, «è quello di raccontare una storia con un significato, non certo i soldi». Invece, il fattore motivante di tutti i suoi libri è «una grande emozione, un’emozione psicologica o politica e intellettuale. Niente e così sia [1969], il libro sul Vietnam, per me non è nemmeno un libro sul Vietnam, è un libro sulla guerra».
Lettera ad un bambino mai nato (1975), nacque a causa della perdita di un bambino. La Fallaci affronta in forma squisitamente letteraria, il dramma della scelta tra maternità e aborto. Il monologo tragico, attraversa tutte le domande che la protagonista senza volto né nome pone a se stessa — e di riflesso alla creatura che attende — sulla significatività dell’esistenza e sulla priorità delle scelte che come donna dovrà compiere, decidendo se sacrificare se stessa o il bambino.
E per poter dare una risposta alla propria coscienza e a suo figlio, immagina che i sette personaggi che la circondano (i genitori, il padre del bambino, il medico…) siano membri di una giuria ideale, chiamati a giudicare e sentenziare sulla sua decisione.
Il libro rappresentò in quel momento un vero e proprio “caso letterario e sociale” e le interpretazioni furono addirittura antitetiche. Le fazioni abortiste a antiaboriste ne faranno, ciascuna, uno strumento per avvalorare le proprie tesi, disegnando ancora una volta, inconsapevolmente, la figura della scrittrice come quella di una donna che emblematicamente vive su se stessa l’esperienza dolorosa di due parti che si fronteggiano.
Il suo luogo di lavoro è spartano. «Inizio a lavorare presto la mattina (otto, otto e mezza) e vado aventi fino alle sei o sette di sera senza interruzione, senza mangiare e senza riposare. Fumo più del solito, il che significa circa cinquanta sigarette al giorno. Dormo male la notte. Non vedo nessuno. Non rispondo al telefono. Non vado da nessuna parte. Ignoro le domeniche, le feste, il Natale, il Capodanno. Divento isterica in altre parole e infelice e colpevole se non produco molto. A proposito, sono una scrittrice molto lenta. E riscrivo ossessivamente. Quindi mi ammalo e divento brutta, perdo peso e divento più rugosa.»
Nel romanzo Insciallah (1990), la Fallaci scrive la storia delle truppe italiane stazionate in Libano nel 1983. Come nei suoi altri romanzi, presenta gruppi e individui che lavorano per mettere la parola “fine” alle loro oppressioni. Tra i suoi scritti si ricordano ancora Sesso inutile (1961), Penelope va alla guerra (1962), Se il sole muore (1965).
I suoi libri sono stati tradotti in decine di lingue. Consegnandole la laurea ad honorem in letteratura, il rettore del Columbia College of Chicago la definì: «Uno degli autori più letti ed amati al mondo.»
Seppure di origini fiorentine, Oriana Fallaci visse a New York: «Firenze e New York sono le mie due patrie», racconta lei stessa.
C’è tutta una tradizione critica che la vuole egocentrica, «incapace di ascoltare altre voci oltre la propria» (C. Dikey del «Los Angeles Times Book Review»), inavvicinabile, burbera e talvolta stizzosa; ma a Oriana Fallaci questo importa poco, infatti non conserva le critiche ai suoi libri e dice: «Non mi interessano i critici. Sono quasi sempre scrittori falliti e, di conseguenza, invidiosi e gelosi di chi scrive. Trovo la loro professione vergognosa perché è così sleale e stupido improvvisare giudizi in un piccolo articolo dopo il lavoro di anni di uno scrittore. Credo che i veri critici siano i lettori […]»
Nella sua lettera a Pier Paolo Pasolini, scritta in seguito al tragico evento della morte dello scrittore, affermava: «[…] In una strada deserta, c’era un bar deserto, con la televisione accesa. Si entrò seguiti da un giovanotto che chiedeva stravolto: "Ma è vero, è vero?" E la padrona del bar chiese: "Vero cosa?". E il giovanotto rispose: "Di Pasolini, Pasolini ammazzato!". E la padrona del bar gridò: "Pasolini Pier Paolo? Gesù! Gesummaria! ammazzato! Gesù! Sarà una cosa politica!". Poi sullo schermo della televisione apparve Giuseppe Vannucchi e dette la notizia ufficiale. Apparvero anche i due popolani che avevano scoperto il tuo corpo. Dissero che da lontano non sembravi nemmeno un corpo, tanto eri massacrato. Sembravi un mucchio d’immondizia e solo dopo che t’ebbero guardato da vicino si accorsero che non eri immondizia, eri un uomo. Mi maltratterai ancora se ti dico che non eri un uomo, eri una luce e che una luce s’è spenta?»
Sempre Luciano Simonelli, nell’intervista precedentemente citata, aveva chiesto alla famosa scrittrice: «Ma tu ci credi agli uomini?» E lei, con il suo solito fare, aveva replicato: «[…] Non è saggio dare troppa fiducia agli uomini: È saggio guardarli con un occhio chiuso e uno aperto e non farsi mai troppe illusioni su di loro, su noi. E ricordarsi che, ahimè, il più delle volte non ci si batte per quello che vorremmo che gli uomini fossero ma non sono, per quello che noi vorremmo essere ma non siamo. Ci si batte per noi stessi e basta.»
In risposta all'orrore dell'11 settembre 2001, Oriana Fallaci rompe un silenzio durato dieci anni dando alle stampe La rabbia e l'orgoglio, uno sfogo duro e appassionato che pone a confronto due culture, l'America e l'Italia, «lontani non solo sulle cartine, ma anche nell’anima». Riemersa da un esilio autoimposto, l'autrice espone come un fiume in piena le proprie idee sulla politica, la società, la Guerra Santa, l'Islam, inframezzando il tutto con i ricordi delle proprie esperienze personali, di giornalista e scrittrice.
Il 12 marzo 2004, all'indomani della strage alla stazione Atocha di Madrid [11 marzo], compare sugli scaffali delle librerie, nelle edicole, sui banchi dei supermercati La forza della Ragione, un altro libro controverso, denso di pensieri e di esperienze personali che mostrano al lettore il percorso di maturazione di un sincero rancore verso l'Islam e verso il mondo arabo in generale. Un libro di attualità, discutibile, ma pregno anche di spunti e di interessanti riflessioni.
Infine, un libretto allegato al quotidiano «Corriere della Sera» del 6 agosto 2004. L'ultimo personaggio intervistato nel ciclo della Storia vissuta e riportata dalla vulcanica giornalista è un simbolo dell'epoca che stiamo vivendo. Oriana Fallaci intervista Oriana Fallaci. Ovvero, perché intervistare una «nullità» come Chirac o Schröder, quando si può scendere al bar sotto casa e ottenere lo stesso risultato? Anzi, perché non fare tutto da soli e intervistare se stessi?
Un insolito silenzio da parte sua ha marcato l'11 settembre 2006, quinto anniversario del crollo che ha cambiato la storia dell'Occidente e del mondo intero. Quattro giorni più tardi, alle 01:30AM del 15 settembre, Oriana Fallaci si spegne nel tepore asettico di una casa di cura di Firenze, in una notte di pioggia torrenziale. Una pioggia totale, alla Ridley Scott, che martella equamente nel suo precipitare incessante e totale le campagne e le banlieue dell'Europa, i giardini e le casbah del Medioriente, conferendo agli aratri addormentati, alle auto in sosta nel buio, ai carretti e alle bancarelle abbandonate nei vicoli deserti, alle palme e ai cellophane gocciolanti, un generale senso d'irrilevanza e di oblio...


domenica 24 giugno 2012

Alessandro Safina - Ci vorrebbe il mare

Ennio Morricone: le colonne sonore più belle del cinema.



Ennio Morricone   è originario di Arpino in provincia di Frosinone, ma
nato a Roma ( 10 novembre 1928) , ricevette la sua formazione musicale al
Conservatorio Santa Cecilia, dove si diplomò in tromba (7/10),
strumentazione per banda (9/10) e composizione  (9,50/10 con Goffredo Petrassi). Ha studiato anche musica corale e direzione di coro.
Contemporaneamente ha lavorato come trombettista in molte orchestre
romane, formandosi così uno spirito eminentemente pratico e creandosi una
rete di conoscenze nel mondo dello spettacolo.

Allievo di Goffredo Petrassi, diplomato in composizione al Conservatorio di Santa Cecilia di Roma, si è dedicato per una decina d’anni alla musica da camera e per orchestra componendo alcune opere d’un certo rilievo. Agli inizi degli anni Sessanta ha cominciato a lavorare anche per il cinema. Il 25 febbraio 2007, a distanza di oltre quarantatre anni dalla sua prima colonna sonora di successo (Per un pugno di dollari) e dopo cinque candidature all'Academy Award Ennio Morricone vince l'Oscar alla carriera "per i suoi magnifici e sfaccettati contributi nell'arte della musica per film". Un premio davvero meritato considerato che il Maestro vanta oltre cinquecento colonne sonore, molte delle quali entrate nella storia del cinema. Diplomato al Conservatorio Santa Cecilia di Roma, Morricone inizia a scrivere musiche per film nel 1955. Nove anni più tardi ha inizio il sodalizio con Sergio Leone che lo vorrà al suo fianco da Per un pugno di dollari - il primo di una lunga serie di original "spaghetti-western" soundtrack - fino alla sua ultima opera cinematografica, C'era una volta in America. Nel frattempo Morricone riveste di musica i film dei maggiori registi italiani, come Bernardo Bertolucci (Prima della rivoluzione, Novecento), Marco Bellocchio (I pugni in tasca, La Cina è vicina), Gillo Pontecorvo (La battaglia di Algeri, Queimada), Sergio Corbucci (Il grande silenzio, Che c'entriamo noi con la rivoluzione?), Pier Paolo Pasolini (Uccellacci e uccellini, Teorema, Salò o le 120 giornate di Sodoma), Mario Bava (Diabolik), Elio Petri (Un tranquillo posto di campagna, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto), e si cimenta nell'horror collaborando con Dario Argento (L'uccello dalle piume di cristallo, Il gatto a nove code, Quattro mosche di velluto grigio) e John Carpenter (La cosa).
"Non sono legato a un genere specifico", dirà Morricone. "Mi piace cambiare, così non c'è il rischio che mi annoi". Il suo contributo al cinema ha influenzato enormemente la scena musicale.
Nel 1985 John Zorn lo ha omaggiato con l'album The Big Gundown. I Fantômas di Mike Patton, per l'album The Director's Cut, hanno elaborato una cover distorta e disturbata di "Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto" e i torinesi Subsonica hanno utilizzato lo stesso brano eseguendolo dal vivo durante il loro "Controllo del livello di rombo tour". I
Ramones erano celebri per usare "The Ecstasy of Gold", tema di Il buono, il brutto, il cattivo, come intro dei loro concerti, idea ripresa anche dai Metallica, che tra l'altro hanno partecipato al disco tributo We All Love Ennio Morricone insieme a Celine Dion, Quincy Jones feat. Herbie Hancock, Bruce Springsteen, Andrea Bocelli, Dulce Pontes e Roger Waters. Persino il rapper Jay-Z ha campionato "The Ecstasy of Gold" nel brano "The Blueprint 2".
Apprezzato in tutto il mondo e da tutte le generazioni, Morricone si è anche dedicato con passione al teatro e alla televisione (sua è la colonna sonora della serie La Piovra), oltre che alla scrittura di lavori sinfonici, composizioni corali e musica da camera. Nel 2006 è apparso come ospite nell'album di
Morrissey Ringleader of the Tormentors, scrivendo e arrangiando gli archi di "Dear God, Please Help Me".

venerdì 22 giugno 2012

MODIGLIANI: I COLORI DELL'ANIMA


Livorno, 12 luglio 1884, nasce Amedeo Modigliani, quartogenito di Flaminio Modigliani e Eugènie Garsin.
 

Nel 1895, Amedeo si ammala di pleurite.
La sua salute cagionevole non gli impedisce di proseguire i suoi studi presso il liceo di Livorno, che interrompe dopo tre anni a causa di una grave forma di tifo.
Guarito, nel 1898, Amedeo inizia a frequentare lo studio dell'artista livornese Guglielmo Micheli.
Nel 1901, si ammala di tubercolosi ed è costretto ad un lungo periodo di cure e di riposo.
In convalescenza si reca con la madre a Napoli, Amalfi, Capri, Roma e Firenze.
Nel 1902 si iscrive alla Scuola Belle Arti a Firenze, dove approfondisce la conoscenza della pittura impressionista italiana, detta "
Macchiaiola", degli artisti dell'avanguardia toscana e del loro capofila, il professor Giovanni Fattori.
Nel 1903, frequenta la Scuola di Belle arti di Venezia.
Incontra l'artista Ortiz de Zàrate con cui conosce le tendenze europee dell'arte, in particolare l'opera di
Cézanne e Van Gogh.
Si reca in Inghilterra e nel 1906 a Parigi.
 




Nel 1907, conosce il mercante Paul Alexandre, il quale gli affitta a sue spese uno studio a Montmartre.
Espone al Salon d'Automne a Parigi.
Nel 1908, espone al Salon des Indépendents a Parigi.
Nel 1909 incontra
Brancusi alla Cité Faulguière a Montparnasse col quale stabilisce una profonda amicizia.
In quell’anno inizia con passione a scolpire, prima a Parigi e in seguito a Livorno.
Nel 1910, torna a Parigi dove partecipa all’Esposizione del Salon des Indépendents con sei opere e la critica gli è favorevole.
Durante quell'anno, si dedica unicamente alla scultura.
Nel 1911, espone a Montparnasse. Nei primi mesi del 1912, tra i numerosi ritratti, dipinge quello del suo mercante dottor Alexandre. In estate ritorna a Livorno dove riprende le forze e lavora direttamente le sculture su pietra. In settembre, ritorna a Parigi: incontra Jaques Lipchitz, Augustus John e Jacob Epstein. Espone al Salon d'Automne con sette culture.

Nel 1913 stipula con il mercante d'arte Chéron il suo primo contratto di lavoro.
Incontra il pittore Soutine e lavora con lui nell'atelier al 216 di Boulevard Raspail.
Nel 1914, Modigliani interrompe le relazioni con molti artisti e si dedica interamente alla sua pittura, unica forma di espressione. Sempre nel 1914, incontra la poetessa inglese Béatrice Hastings.
Conosce Paul Guillaume, che diventerà il suo mercante fino al 1916.
Espone nell'atelier di Emile Lejeune a Parigi.
Incontra Léopold Zborowsky, poeta polacco in esilio, che dedicherà tutto il suo entusiasmo e le sue risorse per far conoscere e apprezzare l’arte di Modigliani suo amico.

Nel 1917, Amedeo incontra Jeanne Hébuterne, giovane allieva dell'Academie Colarossi.
Sempre nel 1917 Léopold Zborowsky organizza per Amedeo una prima esposizione personale alla Galleria Berthe Weill dove Modigliani espone dei nudi. La mostra è chiusa il giorno dell'inaugurazione per oltraggio al pudore.

Nel 1918 sempre a causa della sua salute, Modigliani e la sua compagna soggiornano a Nizza e a Cannes dove dipinge quattro paesaggi, i soli di tutta la sua carriera.
Il 29 novembre, nasce Giovanna, figlia di Amedeo e Jeanne.
Il 31 maggio 1919, Modigliani ritorna a Parigi e Jeanne è nuovamente incinta.
A Londra, nella galleria Hill, Zborowsky gli organizza una esposizione che si risolve con successo.


Modigliani si ammala nuovamente e il 22 gennaio 1920 viene trasportato all'Ospedale della Charité dove muore per una meningite tubercolosa, il sabato 24 gennaio, senza aver ripreso conoscenza.
Il giorno dopo Jeanne Hébuterne, incinta di otto mesi, si suicida gettandosi dalla finestra del quinto piano della casa dei suoi genitori.

La loro figlia di soli 20 mesi, Jeanne, venne adottata dalla sorella di Modigliani a Firenze.

Da adulta, avrebbe scritto un'importante biografia di suo padre, intitolata: Modigliani senza leggenda. Jeanne morì nel 1984 a Parigi, proprio nei giorni in cui si discuteva sull'autenticità delle tre teste, cadendo da una rampa di scale in circostanze alquanto misteriose (qualcuno sospettò che fosse stata spinta, ma l'autopsia non venne effettuata e le indagini furono sbrigative).


Oggi, Modigliani è considerato come uno dei più grandi artisti del XX secolo e le sue opere sono esposte nei più grandi musei del mondo.

Le sue sculture raramente cambiano di mano, e i pochi dipinti che vengono venduti dai proprietari possono raccogliere anche più di 15 milioni di Euro.

Il suo Nu couché (Sur le côté gauche) venne venduto nel novembre del 2003 per 26.887.500 dollari.

Sicché Modigliani sviluppò un suo stile unico, l'originalità di un genio creativo, che era contemporaneo dei cubisti, ma non faceva parte di tale movimento. Modigliani è famoso per il suo lavoro rapido: si dice completasse un ritratto in una o due sedute. Una volta terminati, non ritoccava mai i suoi dipinti. Eppure, tutti coloro che posarono per lui dissero che essere ritratti da Modigliani era come farsi spogliare l'anima.



mercoledì 20 giugno 2012

FEDERICO FELLINI: IL PIU' CELEBRE REGISTA ITALIANO





Federico Fellini è il più celebre regista italiano e come tale non è inquadrabile in un genere ben definito, anche se la prima parte della sua produzione risente dell’influenza neorealista. Fellini è un poeta visionario, gira film onirici difficili da catalogare e fa dell’autobiografismo la sua cifra stilistica più marcata.

Fuga verso Roma
Nasce a Rimini in una famiglia piccolo - borghese e manifesta presto una voglia di fuga verso la capitale che è ben esposta in
I Vitelloni (1953), ritratto veritiero della vita in provincia attraverso le giornate di cinque fannulloni che inventano il quotidiano. L’inverno a Rimini è soltanto noia e rimpianto del tempo perduto, tra amici che si sposano, scappatelle, aspirazioni frustrate, sogni infranti. Fellini si trasferisce a Roma, fa il disegnatore umoristico in riviste come "Marc’Aurelio", comincia a lavorare alla radio e come sceneggiatore cinematografico. Nel 1943 sposa Giulietta Masina, conosciuta alla radio, vende disegni umoristici per campare, fino a quando Roberto Rossellini lo chiama per collaborare a Roma città aperta. Il regista più importante del neorealismo instaura con il giovane Fellini un rapporto fruttuoso, lo vuole accanto anche per Paisà, L’amore (scrive l’episodio Il miracolo) e Francesco giullare di Dio. Fellini scrive sceneggiature anche per altri registi come Lattuada, Germi e Comencini, ma è solo nel 1950 che dirige il primo film in collaborazione con Alberto Lattuada. Si tratta di Luci del varietà, racconto di illusioni e delusioni di un capocomico di una piccola compagnia di avanspettacolo. Il primo film di Fellini con autonoma responsabilità di regia è Lo sceicco bianco (1952), interpretato da un giovanissimo Alberto Sordi che caratterizza un meschino divo dei fotoromanzi.

I primi film
Abbiamo già accennato al grande successo de
I vitelloni (1953), affresco generazionale su un gruppo di giovani che vivono in provincia, non vogliono diventare uomini e sognano la fuga. I primi film di Fellini sono atipici, si possono inserire nel neorealismo solo facendo delle forzature, pure se il regista è un ideologo del neorealismo, autore di soggetti, sceneggiature dialettali (Campo de’ fiori) e collaboratore di Rossellini. Un altro lavoro importante è La strada (1954), favola commovente interpretata da Giulietta Masina, umile e ingenua donna innamorata che cerca di rendere migliore il rozzo Zampanò insieme a un assurdo personaggio chiamato Il Matto. I protagonisti sono tre attori girovaghi come Gelsomina (il sentimento e l’ingenua dolcezza), Zampanò (la forza bruta, la violenza, la bestialità) e Il Matto (la follia che diventa saggezza). Gelsomina vuole cambiare Zampanò e farlo diventare un uomo capace di provare sentimenti. La fantasia di Gelsomina incontra la follia del Matto che le fa capire come deve agire, ma l’unione dei due elementi fa scaturire la tragedia. Zampanò uccide Il Matto con un atto bestiale compiuto davanti a Gelsomina che impazzisce, subito dopo scappa via e abbandona la donna al suo destino. Passano gli anni, Zampanò viene a sapere che Gelsomina è morta e subito si verifica un cambiamento impensabile. La bestia si mette a piangere in riva al mare in compagnia della sua solitudine e comprende di aver perduto l’unica persona importante della sua vita. Anthony Quinn presta il suo volto truce per la caratterizzazione del forzuto Zampanò, Nino Rota compone una strabiliante colonna sonora, Tullio Pinelli ed Ennio Flaiano collaborano alla sceneggiatura. Fellini realizza un’opera poetica che vince l’Oscar come miglior film straniero e il Leone d’Argento a Venezia. Il bidone (1955) racconta le imprese di un gruppo di truffatori, ma soprattutto di Augusto che vorrebbe cambiare vita ma non ci riesce, alla fine cade in un giro peggiore e non scampa alla propria sorte. Il film contiene tutti i temi autobiografici cari a Fellini: i vitelloni, la provincia, la strada, il fatalismo, tanta introspezione dolorosa e una religiosità di fondo. Amore in città (1953) è un film sperimentale a episodi, scritto da Cesare Zavattini, nel quale Fellini si segnala per il surreale Agenzia matrimoniale che racconta la storia di una donna che sposa un licantropo. Le notti di Cabiria (1957) è la storia di una prostituta ingenua e dal cuore d’oro (Giulietta Masina) che pensa di poter cambiare vita sposando uno sconosciuto. Vince l’Oscar per il miglior film straniero e la Palma d’Oro a Cannes, anche per le mirabili interpretazioni di Giulietta Masina e Amedeo Nazzari. Fellini costruisce un film ironico e tragico ambientato nelle borgate romane, aiutato da Brunello Rondi e Pier Paolo Pasolini per i dialoghi, una sorta di apologo sulla grazia e sulla redenzione, ma soprattutto sulla durezza della vita. Il capolavoro registico sta nell’aver saputo mettere la maschera ingenua e clownesca di Giulietta Masina a confronto con le brutture e le nefandezze della vita. Fino a questo film possiamo dire che Federico Fellini è influenzato da echi di neorealismo, anche se porta avanti una poetica personale legata alla caduta delle illusioni.

Gli anni degli scandali e dei successi
La dolce vita (1960) racconta le gesta del giornalista Marcello Rubini (Mastroianni) che ha abbandonato ogni ambizione letteraria e adesso vaga per via Veneto a caccia di emozioni. Gli sceneggiatori Tullio Pinelli, Brunello Rondi, Ennio Flaiano e Federico Fellini descrivono incontri erotici, orge e folli avventure. Il film è un viaggio nella notte romana, all’interno di una società corrotta dove crollano miti, valori e convenzioni. La dolce vita è una pietra miliare della carriera di Fellini ma anche della storia del cinema, perché rompe con un vecchio modo di fare cinema. Marcello Mastroianni diventa l’alter ego di Fellini che attraverso le parole dell’attore esprime la sua analisi del mondo. La pellicola suscita enorme scandalo, sia per la famosa scena del bagno nella Fontana di Trevi della affascinante Anita Ekberg, sia per l’orgia finale con spogliarello, sia per alcune scene di amori extraconiugali. Oscar Luigi Scalfaro scrive due articoli come "Basta!" e "La sconcia vita" per mettere all’indice il film su "L’Osservatore Romano", proprio mentre in parlamento si discute sulla moralità dell’opera. La dolce vita è un film epocale anche perché resta come frase popolare del gergo quotidiano insieme a "vitelloni", "paparazzi" e "bidone".
Otto e mezzo (1963) vede Mastroianni nei panni di Guido, regista in crisi di ispirazione, ancora una volta alter ego di Fellini, per un nuovo film autobiografico e fantastico scritto da Flaiano, Pinelli, Rondi, con la collaborazione del regista. La stupenda colonna sonora di Nino Rota resta nella storia del cinema ed è un motivetto suadente che spesso riecheggia nella memoria. “Chi ha detto che si viene al mondo per essere felici?” resta una delle domande più inquietanti del film alla quale nessuno sa dare risposta. Otto e mezzo è un capolavoro che vince due Oscar e la cosa più assurda del film resta il titolo che indica il numero di regie realizzate da Fellini. Giulietta degli spiriti (1965) è il primo film a colori di Fellini e affronta il tema della distruzione delle certezze di un’esistenza. Una signora borghese, tradita dal marito, va in crisi, anche per colpa di un’educazione cattolica che la condiziona e le fa vivere visioni angosciose. La soluzione finale sarà la solitudine, non servono sesso, psicanalisi e rimedi esoterici. Satyricon (1969) si ispira all’opera di Petronio Arbitro è una "Dolce vita" ai tempi dell’antica Roma che racconta l’educazione sentimentale di Encolpio e Ascilto. Il regista filma un delirio onirico di amore e morte in una Roma imperiale fatta di cene infinite, sesso, assassini, minotauri ed ermafroditi. I clowns (1970) è un film insolito tra la parodia del documentario e l’omaggio al circo, ancora una volta autobiografico, soprattutto nel raccontare l’amore per il circo.
Roma (1972) è la scoperta della città eterna con gli occhi del provinciale, un documentario autobiografico, visionario, lirico e nostalgico. Amarcord (1974) è un’autobiografia lirica, il film più poetico di Fellini, un punto di arrivo difficile da superare, dopo questo film la carriera del regista registra una parabola discendente. Fellini scrive Amarcord insieme a Tonino Guerra, ripensa alle proprie origini e mette in scena i ricordi della Romagna al tempo del fascismo in una struggente saga da strapaese. Il film miscela bene amore, odio e nostalgia, rilegge il passato fascista in maniera acuta e interessante, mostra la mediocrità del regime ma anche del popolo che l’ha accettato. Vediamo i fascisti con l’olio di ricino, ma anche i maschi che insidiano donne, inventano balle e fanno scherzi feroci. Le musiche sono di Nino Rota e contribuiscono a dare valore a una pellicola che guadagna l’Oscar come Miglior film straniero.

Ultimi capolavori
Nell’ultimo periodo della carriera di Fellini ricordiamo l’atipico
E la nave va (1973), che non ha niente di autobiografico ma resta un film prezioso per la cura della confezione scenografica. Il Casanova di Federico Fellini (1976) esprime sin dal titolo che non si tratta della solita storia su Casanova, ma una rilettura in chiave onirica e fantastica tipica del regista. Fellini compie un viaggio surreale nei più strani corpi femminili e ironizza su un Casanova che sogna una donna automa e vorrebbe essere ammirato più come poeta che come amante. La storia dell’ascesa e della decadenza di un grande seduttore è scandita dalle poesie di Andrea Zanzotto e di Tonino Guerra. Prova d’orchestra (1979) è il ritratto graffiante di un’Italia sospesa tra vecchio e nuovo, punta il dito contro il sindacalismo e la difesa dei particolarismi. Ginger e Fred (1983) è un attacco allo strapotere televisivo ma è anche un ricordo del tempo passato e una ricognizione lucida della società contemporanea.
Intervista (1987) è un lavoro autocelebrativo con Fellini intervistato a Cinecittà che ricorda un modo di fare cinema finito per sempre. La voce della luna (1990) è un film geniale e bizzarro interpretato da Roberto Benigni e Paolo Villaggio, due folli individui che vogliono catturare la luna. La voce della luna è l’ultimo film del regista che riporta alle atmosfere oniriche di Amarcord e vuole essere una critica feroce all’Italia berlusconiana. Federico Fellini è un autore fondamentale e atipico del cinema italiano, sinonimo di regista geniale, simbolo di fantasia, leggerezza, umorismo, sentimentalismo, ironia graffiante e grande originalità.