lunedì 27 maggio 2013

SIMBOLI DELL'ITALIA

Lo stemma della Repubblica Italiana: storia e significati

 Il 5 maggio 1948, dopo una due concorsi pubblici, ottocento bozzetti presentati da circa 500 cittadini fra artisti e dilettanti, e un percorso creativo lungo due anni, l'Italia repubblicana ha il suo emblema: una stella dai bordi rossi posta su una ruota dentata ed entrambe circondate da un ramo d' ulivo, a sinistra, e da uno di quercia, a destra.
Il significato dello stemma
L'emblema della Repubblica Italiana è caratterizzato da tre elementi: la stella, la ruota dentata, i rami di ulivo e di quercia. 
La stella è uno degli oggetti più antichi del patrimonio iconografico italiano ed è sempre stata associata alla personificazione dell'Italia, sul cui capo appunto, una stella splende raggiante. Così fu rappresentata nell'iconografia del Risorgimento e così comparve, fino al 1890, nel grande stemma del Regno unitario (il famoso stellone); la stella caratterizzò, poi, la prima onorificenza repubblicana della ricostruzione, la Stella della Solidarietà Italiana e ancora oggi indica l'appartenenza alle Forze Armate del Paese.
La ruota dentata d'acciaio, simbolo dell'attività lavorativa, traduce il primo articolo della Costituzione: "L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro".
Il ramo di ulivo simboleggia la volontà di pace della nazione, sia nel senso della concordia interna che della fratellanza internazionale, mentre la quercia incarna la forza e la dignità del popolo italiano. Entrambi, poi, sono espressione delle specie più tipiche del nostro patrimonio arboreo.
Quanto possano valere oggi questi simboli, è sotto i nostri occhi: non fatemi commentare...

Bandiera italiana storia e significato


La bandiera italiana è il Tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni, così come è definita dall'Articolo n° 12 della Costituzione della Repubblica Italiana del 27 dicembre 1947, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n° 298, Edizione Straordinaria, del 27 dicembre 1947.
Il 7 gennaio la stessa bandiera è protagonista della Giornata Nazionale della Bandiera, istituita dalla Legge n° 671 del 31 dicembre 1996.
Il primo esempio di tricolore italiano fu adottato l'8 ottobre 1796 come distintivo della guardia civile milanese, la Legione Lombarda, e subito dopo dalla Legione Italiana composta da soldati provenienti dall'Emilia e dalla Romagna.
Il bianco e rosso dall'antico stemma comunale di Milano (il vessillo crociato rosso su campo bianco, poi diffusosi in tutta la Pianura Padana) furono abbinati al verde che già a partire dal 1782 costituiva la tonalità delle uniformi della Guardia Civile milanese: il verde era infatti il colore di Milano fin dai tempi dei Visconti, dinastia che si fregiava di tale cromatismo nel proprio stemma araldico.
Le prime bandiere militari furono certamente composte ad imitazione della forma del tricolore francese, tanto che una piccola leggenda di parte francese volle che essa comparve la prima volta quando un soldato portò in battaglia contro gli austriaci una bandiera francese in cui il blu era stato sostituito dal verde per errore o per mancanza della tintura necessaria.
Data di nascita: Il tricolore italiano è decretato il 7 gennaio 1797 a Reggio Emilia come bandiera della Repubblica Cispadana, proposto da Giuseppe Compagnoni.
1797-1814: adottato dal Regno Italico.
1831: emblema della Giovine Italia di Giuseppe Mazzini.
1834: adottato dalle truppe che tentarono di invadere la Savoia.
1848, marzo: durante le Cinque Giornate di Milano il re di Sardegna Carlo Alberto assicura al Governo provvisorio lombardo che le sue truppe, pronte a venire in aiuto per la prima guerra d'indipendenza, avrebbero marciato sotto le insegne del Tricolore.
1848: adottato dalle milizie borboniche e papali inviate in soccorso dei Lombardi, da Venezia e dal Governo insurrezionale della Sicilia.
12 febbraio 1849: adottato dalla Repubblica Romana.
14 marzo 1861: proclamato il Regno d'Italia. La bandiera continua ad essere, per consuetudine il Tricolore.
24 settembre 1923: il Regio Decreto n. 2072, lo adotta come bandiera nazionale.
2 giugno 1946: nasce la Repubblica Italiana.
1947: il Tricolore è introdotto nella Costituzione repubblicana
Significato dei Colori
Verde per il colore delle nostre pianure.
Bianco per la neve delle nostre cime.
Rosso per il sangue dei nostri caduti. 

Anche in questo caso, non fatemi commentare... troppo.

Perché Tricolore
La bandiera italiana è una variante della bandiera della rivoluzione francese, nella quale fu sostituito l'azzurro con il verde che, secondo il simbolismo massonico, significava la natura ed i diritti naturali (uguaglianza e libertà). In realtà i primi a ideare la bandiera italiana sono stati due patrioti e studenti dell'Università di Bologna, Luigi Zamboni, natio del capoluogo emiliano, e Giambattista De Rolandis, originario di Castell'Alfero (Asti), che nell'autunno del 1794 unirono il bianco e il rosso delle rispettive città al verde, colore della speranza. Si erano prefissi di organizzare una rivoluzione per ridare al Comune di Bologna l'antica indipendenza perduta con la sudditanza agli Stati della Chiesa. La sommossa, nella notte del 13 dicembre, fallì e i due studenti furono scoperti e catturati dalla polizia pontificia, insieme ad altri cittadini. Avviato il processo, il 19 agosto 1795, Luigi Zamboni fu trovato morto nella cella denominata "Inferno" dove era rinchiuso insieme con due criminali, che lo avrebbero strangolato per ordine espresso della polizia. L'altro studente Giovanni Battista De Rolandis fu condannato a morte ed impiccato il 23 aprile 1796. Napoleone la adottò il 15 maggio 1796 per le Legioni lombarde e italiane. Nell'ottobre dello stesso anno il tricolore assunse il titolo di bandiera rivoluzionaria italiana ed il suo verde, proclamato colore nazionale, divenne per i patrioti simbolo di speranza per un migliore avvenire: con questo valore fu adottato dalla Repubblica Cispadana il 7 gennaio 1797, qualche mese dopo da Bergamo e Brescia e poi dalla Repubblica Cisalpina. In quell’epoca le sue bande erano disposte talvolta verticalmente all'asta con quella verde in primo luogo, talvolta orizzontalmente con la verde in alto; a cominciare dal 1° maggio 1798 soltanto verticalmente, con asta tricolorata a spirale, terminante con punta bianca. Nella metà del 1802 la forma diviene quadrata, con tre quadrati degli stessi colori racchiusi l'uno nell'altro; questo cambiamento fu voluto dal Melzi (vice presidente della Repubblica Italiana) per cancellare ogni vincolo rivoluzionario legato alla bandiera. Abolito alla caduta del Regno Italico, il tricolore fu ripreso, nella sua variante rettangolare, dai patrioti dei moti del 1821 e del 1831. Mazzini la scelse come bandiera per la sua Giovine Italia, e fu subito adottata anche dalle truppe garibaldine. Durante i moti del '48/'49, sventola in tutti gli Stati italiani nei quali sorsero governi costituzionali: Regno di Napoli, Sicilia, Stato Pontificio, Granducato di Toscana, Ducato di Parma, Ducato di Modena, Milano, Venezia e Piemonte. In quest'ultimo caso alla bandiera fu aggiunto nel centro lo stemma sabaudo (uno scudo con croce bianca su sfondo rosso, orlato d’azzurro). La variante sabauda divenne bandiera del Regno d'Italia fino al referendum istituzionale del 2 giugno 1946, quando l'Italia divenne Repubblica e lo scudo dei Savoia fu tolto.

Qual è l’origine del nome Italia?

Il significato della parola Italia ancora senza un’identità confermata, ha  diverse ipotesi ed è stato oggetto di ricostruzioni non soltanto da parte di linguisti, ma anche di storici, tradizionalmente attenti alla questione; non sempre, tuttavia, ci si trova di fronte ad etimologie in senso stretto bensì ad ipotesi che poggiano su considerazioni estranee alla ricostruzione specificatamente linguistica del nome, e che con il tempo hanno formato un ricco corpus di soluzioni tra le quali sono numerose quelle che si riferiscono a tradizioni non dimostrate (come ad esempio l'esistenza di un re di nome Italo) o comunque fortemente problematiche (come ad esempio la connessione del nome con la vite). Quel che è solitamente giudicato come sicuro è che il nome inizialmente indicasse solo la parte posta nell'estremo meridione della Penisola.
IL  RE  ITALO 
Esistono varie leggende sul personaggio di Italo, vissuto, secondo il mito, 16 generazioni prima della guerra di Troia e re del popolo degli Enotri. Da lui deriverebbe il nome Italia: dato prima alla regione corrispondente al suo regno, ovvero quasi tutta la Calabria ad esclusione della zona settentrionale , e poi esteso a tutta la penisola si estese successivamente a tutta la penisola (fino alle attuali regioni di Toscana e Marche) come narrano Tucidide, Aristotele, Antioco di Siracusa e Strabone. Re Italo condusse gli Enotri da una vita nomade ad un popolo stabile che si stanziò nell'estrema propaggine delle coste europee, nell'attuale istmo di Catanzaro nell'omonima provincia delimitata rispettivamente ad oriente dal golfo di Squillace e ad occidente dal Golfo di Sant'Eufemia. La capitale del suo regno era, secondo Strabone, Pandosia Bruzia, oggi da identificare probabilmente con la città di Acri.
Secondo quanto ci racconta Strabone, dei confini dell'Italia parlava già Antioco di Siracusa (V secolo a.C.) nella sua opera Sull'Italia,  il quale la identificava con l'antica Enotria. A quel tempo si estendeva dallo stretto di Sicilia, fino al golfo di Taranto (ad est) ed al golfo di Posidonia (ad ovest). In seguito, con la conquista romana dei secoli successivi, il termine Italia venne identificato con i territori compresi fino alle Alpi, comprendendo, pertanto, anche la Liguria (fino al fiume Varo) e l'Istria fino a Pola. Di fatto tutti i suoi abitanti furono considerati Italici e Romani. SecondoStrabone,Italo fu il fondatore di Pandosia Bruzia, la capitale del suo Regno, probabilmente da identificare con la città odierna di Acri.
ETIMOLOGIA GRECA
Il nome deriva dal vocabolo Italói, termine con il quale i greci designavano i Vituli (o Viteli), una popolazione che abitava nella punta estrema della nostra penisola, la regione a sud dell’odierna Catanzaro, i quali adoravano il simulacro di un vitello (vitulus, in latino). Il nome significa cioè “abitanti della terra dei vitelli”. Fino all’inizio del V secolo avanti Cristo, con Italia si indicò solo la Calabria, in un secondo tempo il nome fu esteso a tutta la parte meridionale del Paese.
Dalla Calabria alle Alpi. Nel secolo III, dopo le vittorie riportate dai romani contro i Sanniti e contro Pirro, si estese fino al Magra e al Rubicone. Nel 49 avanti Cristo, quando anche alla Gallia Cisalpina furono concessi i diritti di cittadinanza romana, anche le regioni settentrionali della penisola presero il nome di Italia. Tali confini vennero ulteriormente dilatati con la riforma amministrativa di Augusto (27 dopo Cristo) che li portò a ovest al fiume Varo (presso Nizza) e a est al fiume Arsa, in Istria.

Per concludere, estrema incertezza quindi, sull'origine del significato del nome Italia.

martedì 21 maggio 2013

26^ EDIZIONE DEL SALONE INTERNAZIONALE DEL LIBRO DI TORINO

ANCHE QUEST'ANNO SI È SVOLTA (SI È CONCLUSA IERI) LA FIERA DEL LIBRO A TORINO. UN EVENTO SEMPRE PIÙ ATTESO E PER FORTUNA, PARTECIPATO.







Il Salone Internazionale del Libro (dal 1988 al 1998 Salone del Libro, dal 1999 al 2001 Fiera del Libro, dal 2002 al 2009 Fiera Internazionale del Libro) è la più importante manifestazione italiana nel campo dell'editoria. Si svolge al centro congressi Lingotto Fiere di Torino una volta all'anno, nel mese di maggio.

Nei 51.000 m² di spazio espositivo ospita case editrici di varie dimensioni e nelle sale convegni presenta, in base a un tema portante che varia di anno in anno, un denso calendario di conferenze, spettacoli, presentazioni di libri e iniziative didattiche. Come il Salone del libro di Parigi, si rivolge sia ai professionisti del settore sia al pubblico dei lettori.
Per numero di espositori è la seconda fiera del libro in Europa dopo la Buchmesse di Francoforte; per numero di visitatori è dal 2006 la prima, con più di 300.000 partecipanti.

EDIZIONE 2013
Il 26° Sa­lo­ne In­ter­na­zio­na­le del Li­bro ha chiuso al­le ore 22 di lu­ne­dì 20 mag­gio 2013. Al­le ore 18.00 gli in­gres­si so­no sta­ti 329.860, con un au­men­to del 4% ri­spet­to ai 317.482 del­la chiu­su­ra 2012. Un nuo­vo re­cord che pol­ve­riz­za tut­ti i ri­sul­ta­ti pre­ce­den­ti.
No­no­stan­te i ti­mo­ri e le cau­te­le del­la vi­gi­lia per la cri­si eco­no­mi­ca che nel­l’ul­ti­mo an­no ha co­min­cia­to a far sen­ti­re pe­san­te­men­te i pro­pri ef­fet­ti an­che sul­l’in­du­stria edi­to­ria­le e il mer­ca­to del li­bro, il 26° Sa­lo­ne In­ter­na­zio­na­le del Li­bro di To­ri­no si av­via a chiu­der­si quin­di con un suc­ces­so su­pe­rio­re a tut­te le edi­zio­ni pre­ce­den­ti.

 Nu­me­ro di in­gres­si, per­cen­tua­li di ven­di­ta e af­flus­so ai con­ve­gni han­no con­fer­ma­to, an­co­ra una vol­ta, che la for­mu­la pe­cu­lia­re lo ren­de un uni­cum, raf­for­zan­do la sua na­tu­ra an­ti­ci­cli­ca ri­spet­to al­la con­giun­tu­ra ge­ne­ra­le. Il Sa­lo­ne di To­ri­no, con la sua iden­ti­tà ibri­da di fie­ra li­bra­ria, fe­sti­val cul­tu­ra­le e spa­zio pro­fes­sio­na­le, si con­fi­gu­ra sem­pre più co­me un’en­ti­tà in­di­pen­den­te e ano­ma­la, un fe­no­me­no in con­tro­ten­den­za ri­spet­to al­le di­na­mi­che che gui­da­no i con­su­mi e le scel­te cul­tu­ra­li del pub­bli­co nel re­sto del­l’an­no.
Il Sa­lo­ne è sta­to inau­gu­ra­to gio­ve­dì 16 mag­gio dal mi­ni­stro per i Be­ni e le At­ti­vi­tà Cul­tu­ra­li. Paese ospite era il Cile, con la sua cultura e i suoi autori a partire da Pablo Neruda, che ha vissuto anche in italia (come ricordato nel famoso film "Il Postino").
A con­clu­sio­ne del Sa­lo­ne 2013 il te­sti­mo­ne del­la Pre­si­den­za del­l’Al­to Co­mi­ta­to di Coor­di­na­men­to del­la Fon­da­zio­ne per il Li­bro, la Mu­si­ca e la Cul­tu­ra pas­sa dal sin­da­co del­la Cit­tà di To­ri­no.
Nei gior­ni del Sa­lo­ne è pro­se­gui­to il con­fron­to con i pic­co­li edi­to­ri per mi­glio­ra­re e age­vo­la­re sem­pre più la lo­ro pre­zio­sa par­te­ci­pa­zio­ne al­la ma­ni­fe­sta­zio­ne to­ri­ne­se. In par­ti­co­la­re, nei pros­si­mi me­si ver­ran­no stu­dia­te nuo­ve mi­su­re di so­ste­gno ol­tre a quel­le già adot­ta­te nel­l’e­di­zio­ne 2013, e che pre­ve­de­va ad esem­pio lo scon­to ag­giun­ti­vo del 10% sul­le ta­rif­fe per gli as­so­cia­ti Aie.
L’ap­pun­ta­men­to è per il me­se di mag­gio 2014 con il Sa­lo­ne In­ter­na­zio­na­le del Li­bro nu­me­ro 27. Pae­si ospi­ti can­di­da­ti, la Gui­nea e la Tur­chia.


domenica 19 maggio 2013

RICETTE: BRASATO AL BAROLO, UNA DELIZIA PER IL PALATO


COME PROMESSO AI MIEI ALUNNI DELL'UNIVERSITÀ, ECCO UNA SUCCULENTA RICETTA A BASE DI CARNE E... VINO !!!




Ecco qui il video esplicativo


Il brasato al Barolo è un piatto tipico della tradizione culinaria Piemontese molto gustoso ma altrettanto laborioso nella preparazione. Il brasato si presta a diventare piatto unico se accompagnato da contorni come il puré di patate, il riso o la polenta. In Piemonte costituisce il cibo delle feste per eccellenza, insieme agli agnolotti. Se volete onorare un ospite speciale, servitegliene un decina conditi solo con il sughetto dell'arrosto: una prelibatezza da leccarsi i baffi.

Questa ricetta è sicuramente una delle più rappresentative del Piemonte per l'utilizzo, innanzitutto, del Barolo, tipico vino di questa regione, ed in secondo luogo della carne di bovino piemontese.
Per quanto riguarda l'origine del brasato al Barolo, non si sa molto, anche se il metodo di cottura per la preparazione del brasato era conosciuto già in antichità.
Naturalmente, l'aggiunta del Barolo ha dato alla ricetta quel tocco in più, quell'aroma particolare ed il gusto inconfondibile che fanno del brasato al Barolo una delle ricette più conosciute ed apprezzate della cucina Italiana, anche all'estero.


PREPARAZIONE
La prima cosa da fare nella preparazione del brasato al Barolo è fare marinare la carne: prendete il trancio di carne, asciugatela dall'eventuale residuo di sangue e ponetela in una capiente terrina.
Mondate le verdure e tagliatele tutte a cubetti, trasferitele nella terrina con la carne e le spezie; aggiungete il Barolo, coprite con la pellicola per alimenti e lasciate marinare il tutto per 12 ore in un posto fresco.
Trascorse le 12 ore, prelevate la carne dalla marinata e ponetela su un tagliere e asciugatela delicatamente con della carta da cucina;
fate fondere in una casseruola il burro insieme all'olio e fate rosolare la carne per circa 5 minuti per lato, fino ad ottenere la crosticina tipica degli arrosti.
A questo punto, prelevate le verdure e le spezie dalla marinata e aggiungetele alla carne in cottura.
Fate cuocere le verdure con la carne per circa 15 minuti in modo che inizino a intenerire.
Procedete ora a versare anche la marinata alla carne e alle verdure; coprite con un coperchio e fate sobbollire per almeno 2 ore a fuoco dolce.
Una volta brasata la carne, toglietela dalla casseruola e mantenetela in caldo mentre preparate il sughetto che la accompagnerà: passate tutte le verdure insieme al vino frullandole e rimettete il sugo ottenuto sul fuoco per farlo addensare.
Regolatelo di sale. Quindi ancora caldo versatelo sul brasato affettato...ed ecco pronto il vostro brasato al Barolo. Se volete ottenere più sughetto, ricordate che basterà aggiungere più verdure (in particolar modo carote e cipolle) durante la cottura. Inoltre, per rendere lo stesso sughetto più denso basta aggiungere una patata a metà cottura in modo che l'amido possa far addensare il tutto
Buon appetito !!!

 Ah... un suggerimento del sottoscritto: al posto del Barolo (vino carissimo) si può usare anche il Nebbiolo. L'uva nebbiolo è la stessa con cui si ricava il Barolo e il Barbaresco. Il gusto sarà leggermente meno intenso del Barolo, ma sicuramente più economico !!! 




domenica 12 maggio 2013

TOSCANA: RISERVA NATURALE DI VALLOMBROSA



A 30 KM DA FIRENZE, INCONTRIAMO UNA DELLE FORESTE PIÙ IMPORTANTI D'ITALIA; L'ABBAZIA E I SUOI PRODOTTI NATURALI DELLA FARMACIA E DELL'ERBORISTERIA. UNA TAPPA OBBLIGATORIA PER CHI VUOLE INCONTRARE UNA NATURA MERAVIGLIOSA ALL'INTERNO DI BOSCHI  UNICI E BELLISSIMI.



Una foresta stupenda e lussureggiante come nessun’altra in tutta la penisola. Un paradiso verde che ha ispirato personaggi illustri come l’inglese Milton, il francese Lamartine, l’italiano Ariosto. Una distesa di gradazioni di colore che variano continuamente con le stagioni fino a raggiungere il loro apice durante il periodo autunnale quando il verde intenso dei pini e degli abeti contrasta in maniera stridente con i gialli, gli arancioni, i vermigli delle foglie di infinite varietà delle altre verietà arboree. Un catalogo di specie che qui è di una vastita davvero sbalorditiva: abeti bianchi e rossi, pini, faggi, castagni, larici, cerri, addirittura sequoie che vantano ormai un secolo di vita. Senza dimenticare le specie rare ed esotiche conservate nei vari arboreti sperimentali, i cui nomi rimandano ai quattro angoli del pianeta, dall’America del Nord al Caucaso, al Giappone e che qui hanno trovato un habitat ottimale.

Vallombrosa è una specie di Eden posto dalle mani di un Dio più che mai generoso ed esuberante a mille metri d’altezza sulle pendici di una montagna a breve distanza da Firenze. Una foresta solcata da ruscelli che formano cascatelle rumorose, costeggiano candide cappelle perse nel verde, si intrufolano sotto ponticelli di pietra antica e che scendono giù baldanzosi in attesa di scorrere più in basso fra le distese degli olivi contorti e i filari dei cipressi inondati dal sole. Ma qui, nel fitto della millenaria foresta anche quel sole che altrove in Toscana la fa da padrone, fatica a farsi spazio fra le folte chiome degli alberi. Qui domina il silenzio, interrotto soltanto dai rapidi movimenti dei daini, dei caprioli, dei cinghiali, degli scoiattoli. Oppure dal cinguettio delle innumerevoli specie di uccelli che vi nidificano.
Un paradiso in terra, abbiamo detto, un luogo che non poteva essere tale se non per l’opera attenta e secolare dei monaci che curarono il bosco con pazienza infinita e vi introdussero molte delle specie arboree che ora costituiscono il vanto di questo angolo di Toscana.
Perché, come sempre accade in Toscana ed altrove, una foresta magnifica e curata ha sempre, inevitabilmente, al suo centro un monastero. Sarà perché nella contemplazione delle meraviglie della natura i monaci hanno sempre visto un modo per stimolare alla preghiera riconoscente verso il Creatore, sarà perché il bosco ha sempre rappresentato una cintura di silenzio attorno ad essi; fatto sta che i tratti di foresta attorno ai monasteri sono sempre stati i più rigogliosi e i più curati anche dal punto di vista economico, sempre con grande saggezza ed equilibrio. Per i benedettini questo era il luogo deputato al lavoro e alla preghiera, "Ora et labora" come recitava la Regola del fondatore.

Ma Vallombrosa non è soltanto il luogo dove sorge un antico monastero, al centro di uno degli angoli più meravigliosi che sia dato vedere. Forse al visitatore che giunge fin quassù, provando la sua pazienza su un percorso che si attorciglia in infinite curve in salita per trovare la calma di un luogo apparentemente fuori dal mondo, può apparire strano. Eppure questo luogo isolatissimo, soprattutto nei periodi invernali quando si copre di neve, fu per lungo tempo al centro delle vicende europee, un luogo ambito e visitato da papi, re ed imperatori. Oppure dai loro rappresentanti e, talvolta, anche dai loro minacciosi eserciti. Tempi in cui Vallombrosa era il fulcro di una vasta congregazione capace di far tremare gli uomini potenti dell’epoca. E da cui scaturirà un sostegno fondamentale a quel vasto movimento di riforma della Chiesa e della società fatto proprio da papi come Gregorio VII e che determinerà la spaccatura delle società del tempo, a quel cinquantennio di lotte fra XI e XII secolo che contrapporrà il Papato e l’Impero con effetti laceranti su tutta la Cristianità.
Oggi, passeggiando in queste foreste silenziose, dove spesso l’unico rumore che ti giunge è quello del vento che scompagina le foglie, il canto di una cascata o il guizzare rapidissimo dei pesci nella grande vasca che fronteggia l’abbazia, di tutto questo non ne abbiamo la percezione, quasi fosse rimasto molto in basso, fra gli affanni di ogni giorno che pervade la frenetica attività della Valle dell’Arno in vista, ormai, di Firenze. Forse l’eco di queste storie è custodita nelle pietre antiche che costituiscono il monastero e le tante cappelle disperse nel verde. Forse in quella arcigna torre quattrocentesca accanto al monastero che incute ancora timore.

Facciamo, allora un passo indietro nel tempo fino a giungere agli anni immediatamente successivi al fatidico Mille che, almeno secondo alcuni, avrebbe dovuto rappresentare la fine di questo ordine di cose. Che i contemporanei ci credessero o meno (circostanza sulla quale ancora oggi si discute animatamente), fatto sta che allora cominciarono a spuntare un po’ ovunque, ma soprattutto su queste montagne, personaggi che, come gli antichi eremiti dei deserti egiziani, fuggivano dal mondo per condurre, in assoluta solitudine, una vita di rinunce e di preghiera. E che diventavano spesso i punti di riferimento delle popolazioni delle antiche città che allora stavano rinascendo, popolazioni che acquisivano una nuova coscienza iniziando a contestare la vita corrotta dei loro vescovi e della Chiesa. Sono i primi segnali di un movimento che non può, per il momento, che rimanere confinato nella sfera religiosa, ma che mette le basi per quella consapevolezza che porterà di lì a poco al nascita dei Comuni e all’incrinarsi del mondo feudale.

Proprio verso il Mille, a Firenze nasce Giovanni Gualberto. Un personaggio che la tradizione vuole, come sempre, di nobile famiglia. Un uomo dal carattere irrequieto,  animato da sincero spirito religioso che decide, nonostante il parere contrario della famiglia, di entrare nel monastero benedettino di San Miniato al Monte da poco fondato. Era il luogo che custodiva le spoglie di San Miniato, l’unico martire di Firenze, ma soprattutto costituiva una sistemazione di prestigio, il "top", diremmo oggi, nella vita religiosa della città e non solo. Ma qualcosa accade, non sappiamo cosa. Forse la scoperta del fatto che la nomina dell’abate era avvenuta mediante pagamento di denaro, forse la disciplina non abbastanza aderente ai dettati della Regola di San Benedetto. Fatto sta che, fra il 1035 ed il 1037, un gruppo di frati, fra i quali Gualberto, decide di abbandonare il monastero alla ricerca di un luogo più adatto ai loro scopi, un posto dove poter condurre in piena libertà la loro vita di preghiera. La loro scelta cadde su una località completamente isolata sulle pendici del Pratomagno coperte da foreste, Vallombrosa, "valle piovosa" se vogliamo tradurre con maggiore correttezza dal latino.
In realtà Giovanni Gualberto vi giunge in un secondo momento, dopo aver trascorso un periodo di tempo nella vicina Camaldoli, in Casentino, nell’eremo voluto da Romualdo, uno dei padri del monachesimo medievale. Sarà un’esperienza fondamentale.
I monaci lavorano molto attivamente, costruendo le prime capanne che probabilmente erano di legno e la prima chiesa, dedicata a Santa Maria, il cuore del futuro monastero in pietra. Qui possono finalmente applicare la Regola benedettina nel senso più letterale, senza compromessi. Qui possono vivere lo spirito dei primi tempi del monachesimo, quello dei Padri del deserto.

Ma è destino che Giovanni Gualberto e i suoi compagni che nel frattempo erano cresciuti di numero non potessero godere della tranquillità del loro rifugio. Altri monasteri vogliono aderire al loro progetto. Ma nelle città cresce il fermento, complice anche il papato che cerca finalmente di migliorare i costumi della Chiesa e di aumentare il suo controllo, finora spesso inesistente, sui vescovi. Si comincia a parlare della simonia come di un peccato grave. Si condannano gli eccessi del clero, la loro vita dissoluta. Si conia addirittura un termine, "nicolaismo", per designare il matrimonio del clero, finora tollerato e diffuso, quasi si trattasse di una vera e propria eresia. A Milano, un vero e proprio movimento popolare, la Pataria, si scaglia contro il vescovo e i cittadini, che rifiutano ormai ogni sacramento dalle mani del vescovo locale considerato indegno e corrotto si rivolgono ai Vallombrosani per poter ricevere monaci e sacerdoti sicuramente timorati da Dio cui affidare la guida della loro vita spirituale.

Anche Firenze, come tante altre città, era retta dal suo vescovo. Che però era già stato oggetto delle invettive di Teuzzo, già a suo tempo guida spirituale di Giovanni Gualberto, il quale, tranquillamente ammogliato, permetteva che la sua consorte rispondesse in sua vece in questioni ecclesiastiche. Per giunta, il padre del vescovo aveva ammesso incautamente di aver comprato a caro prezzo la carica del figlio. Non è qui la sede per esaminarne i dettagli, ma fra i monaci vallombrosani e il vescovo, si aperse una lotta durissima che durò per anni, senza esclusione di colpi, fino a all’incredibile prova del fuoco dell’inverno del 1068 dinnanzi al monastero di San Salvatore a Settimo. In quella sede, il giudizio di Dio venne invocato per provare le accuse contro il vescovo di Firenze, Pietro Mezzabarba. Fu un altro Pietro, un monaco vallombrosano poi chiamato Igneo, che con la croce in mano attraversò un tappeto di carboni ardenti uscendone indenne. Per il popolo che in massa era presente, la sentenza fu di una chiarezza estrema ed il vescovo, abbandonato da tutti, dovette darsela a gambe.
Altri tempi, un’altra mentalità forse, ma che era stata fatta propria dalla Chiesa di Roma, soprattutto da Gregorio VII che, pur venendo eletto poco dopo la morte di Giovanni Gualberto, avvenuta nel 1073, fu sempre un suo grande ammiratore e sostenitore. E che fu anche lui impegnato con lo stesso spirito da crociata contro quelli che considerava i nemici della Chiesa, ovvero l’imperatore e i vescovi da lui eletti. Non a caso Giovanni Gualberto viene sempre rappresentato con il bastone del comando e, soprattutto, con la croce di Cristo che brandisce quasi fosse una spada puntata contro i simoniaci.

Nulla di tutto questo, lo ripetiamo, appare a chi visita oggi il complesso monastico di Vallombrosa o passeggia nell’incredibile foresta che lo circonda. L’architettura dell’abbazia ostenta la sua elegante e candida facciata seicentesca sulle quali spicca il grigio delle finestre in pietra serena, il risultato più visibile dei rifacimenti che nei secoli ne hanno più volte modificato l’aspetto.
L’attraversiamo per raggiungere, oltre un piccolo chiostro la chiesa, il cuore del monastero. L’interno è ricco di decorazioni settecentesche che talvolta portano i segni dell’inclemenza del clima di questo luogo. In fondo vi è il raffinato coro ligneo quattrocentesco, ai lati si aprono cappelle ricolme di stucchi e di reliquie preziose. Alle pareti, sopra gli altari, dipinti di varie epoche. Nella sacrestia una terracotta di Luca della Robbia e una tavola di Raffaellino del Garbo, allievo del Ghirlandaio.
Eppure, fra tanto splendore, qualche traccia del primo insediamento rimane, come le piccole cappelle sulla sinistra, accanto all’ingresso con le loro pietre romaniche. Oppure il campanile, duecentesco. Pochi resti, ma il segno di un passato che riappare a chi lo sappia cercare.

Su tutto, ormai, regna una penombra discreta e carica di secoli. Le nere figure dei pochi monaci, che qui sono ritornati dal 1949, appaiono con quella discrezione che è una loro caratteristica. Qui domina il silenzio tanto ricercato ormai quindici secoli fa, da San Benedetto su altre montagne. Così nel raccolto chiostro della Meridiana, come nello splendido refettorio, nella cucina con il suo grande focolare a cappa piramidale, nell’aula capitolare, nella biblioteca. Silenzio, preghiera e lavoro, "Ora et labora".
Il giro del monastero non può non concludersi che con una visita ai locali della farmacia dove i monaci vendono il prodotto del loro lavoro, e al museo d’arte sacra dove sono raccolti molti dei capolavori custoditi nell’abazia.
Una volta usciti potremmo decidere di salire al Paradisino, l’antico eremo dei vallombrosani, cui si arriva tramite una salita intervallata di cappelle. Oppure scegliere uno dei tanti sentieri che, come un labirinto, abbracciano il bosco, magari alla volta del Faggio santo, del Masso del Diavolo, della Cappella di San Giovanni Gualberto, oppure..., mentre l’alta torre merlata, l’unica sopravvissuta delle quattro che rendevano il complesso simile ad un castello, si staglia ancora minacciosa contro il fondale verde degli abeti. Silenziosa, come i monaci e il loro misticismo magnetico.


Descrizione
La Riserva Naturale Statale Vallombrosa interessa una superficie di 1.270 ettari.
Ubicata alle pendici del Pratomagno, nel comune di Reggello, la foresta di Vallombrosa ha la forma di un pentagono irregolare e ricopre tutto il versante tra le quote di 530 e 1350 metri. I corsi d’acqua presenti hanno scarsa importanza idrografica, forti pendenze, breve lunghezza e caratteri fortemente torrentizi, con magre che possono portare fino al completo prosciugamento nel periodo estivo. Quasi tutti questi fossi finiscono nel torrente Vicano di Vallombrosa, il principale affluente del Vicano di S. Ellero.

http://youtu.be/_pXPDoEUfAI  video

Come si arriva:
Da Firenze:
- percorrendo la via Aretina per Pontassieve - Pelago -Tosi
- autolinee SITA con partenza dalla stazione S.M.N. di Firenze o di Pontassieve
Dall'Autostrada del Sole:
- uscita Incisa Valdarno - Reggello - Saltino
- uscita Firenze sud, Rosano - Pontassieve - Pelago - Tosi
Dal Casentino:
dal Passo della Consuma, lungo la strada tra la foresta, circa 9 km.


domenica 5 maggio 2013

L'ULTIMA DIVA: LA GRETA GARBO ITALIANA


Rossella Falk, l'attrice preferita di Fellini e Visconti si è spenta a Roma, aveva 86 anni.

                       http://youtu.be/tsFt3s96jCs     intervista all’attrice nel 2007

 E' morta a Roma Rossella Falk. Aveva 86 anni. L'attrice - vero nome Rosa Antonia Falzacappa - si è spenta all'ospedale San Giovanni, nella capitale. Nata a Roma il 10 novembre del 1926, si era diplomata all'Accademia d'arte drammatica e aveva iniziato a lavorare in teatro alla fine degli anni Quaranta.
L'avevano definita "la Greta Garbo italiana". Non a caso la sua biografia, uscita nel 2006 per Mondadori, si intitola L'ultima diva. Era una diva Rossella Falk di quelle d'altri tempi, grande signora dello spettacolo e donna di raffinata eleganza. Curiosa, colta, un'intelligenza vivace, vantava frequentazioni cosmopolite e amicizie con i grandi dello spettacolo di tutto il mondo. Parlava quattro lingue, era stata traduttrice dal russo e dall'inglese, era cultrice di Tennessee Williams ("l'ho conosciuto - ricordava - era rosso, piccolo, vivace e simpatico"). Intima di Jean Cocteau e Noël Coward, di Dirk Bogard e Peter O'Toole ("ricordo i nostri giri notturni nella swingin' London, con lui vestito da donna... altri tempi, oggi c'è troppo conformismo") e di Maria Callas, proprio con la Divina aveva condiviso un rapporto d'amicizia lungo vent'anni, fino alla sua scomparsa, e aveva voluto ricordarla e celebrarla con uno spettacolo portato in tournée in tutto il mondo dal 2004 al 2006, Vissi d'arte, vissi d'amore, un recital in cui aveva raccontato e interpretato suoi ricordi personali, interviste e scritti.
"Fin dai primi momenti della mia carriera mi sentivo guardata in un certo modo, quasi con soggezione. Mi vedevano alta, regale, con un portamento naturale che sembrava mettere in riga la gente. Entravo in scena, o in una stanza, e mi rimiravano come la Madonna", raccontò la Falk in un'intervista. Andò così anche con Giorgio De Lullo - con il quale fonderà la Compagnia dei Giovani - o almeno così la raccontava lei, con una punta di vezzosità, ricordando di quando lo aveva incontrato "per caso, a Roma, in piazza Mazzini" e lui le disse "venga all'Accademia, lì sono tutte racchie, lei è bella: puntò sulla vanità e io andai, fui ammessa, diventai attrice".

La bellezza passò in secondo piano quando di Rossella attrice emersero qualità e sensibilità. Dal 1951 al 1953 è nella compagnia di Rina Morelli e Paolo Stoppa ma è il 1954 l'anno che segna il suo destino, quando cioè insieme a De Lullo e Romolo Valli fonda la compagnia "che poi la critica - precisava lei - chiamò dei Giovani". Al nucleo originario si aggiungeranno Tino Buazzelli, Anna Maria Guarnieri, Elsa Albani. Per la prima volta, nel teatro italiano del dopoguerra, si videro recitare insieme giovani attori in ruoli da protagonisti che, fino a pochi anni prima, erano stati appannaggio esclusivo di interpreti maturi e collaudati come Ruggero Ruggeri, Marta Abba, Gino Cervi, Andreina Pagnani. I Giovani fecero una piccola grande rivoluzione: la forza di una compagnia non era più nel singolo mattatore ma nel gruppo. Una coesione, uno stile e un rigore che non vennero meno neanche quando la Compagnia (che si era associata alla Morelli-Stoppa) chiuse i battenti nel 1972: De Lullo, Valli, Falk, Albani continuarono a recitare insieme anche negli anni a venire.

Fra le interpretazioni di Rossella Falk si ricordano La bugiarda (1955), D'amore si muore (1958), Sei personaggi in cerca d'autore (1963), Tre sorelle (1964), Il gioco delle parti (1966), Metti una sera a cena (1967), L'amica delle mogli (1968), La signora delle camelie (1975). Poi, l'assenza dal palcoscenico, per alcuni anni. E il ritorno  all'inizio degli anni Ottanta: fra i suoi lavori Maria Stuarda (1983), L'aquila a due teste (1984), Amanda Amaranda (1988), La dolce ala della giovinezza (1989), I parenti terribili(1991). Fra i suoi impegni più recenti Sinfonia d'autunno (2008) e Est Ovest (2009). E un cruccio, legato ancora a quel suo aspetto "regale": "Essere alta un metro e settantasei, che ai miei tempi era davvero molto, mi ha impedito di interpretari certi ruoli tradizionali come Ofelia o Giulietta, insomma quelle fanciulle vulnerabili, palpitanti. Fui sempre chiamata a impersonare donne di grande carattere, inavvicinabili. Ma io non sono così". Carattere però ne aveva, per occuparsi di ciò che aveva sempre frequentato: dal 1981 al 1997 è direttore artistico del Teatro Eliseo di Roma insieme a Giuseppe Battista e Umberto Orsini.

In teatro era stata diretta dai più importanti registi italiani, da Luchino Visconti a Franco Zeffirelli, da Orazio Costa a Giancarlo Cobelli, Giuseppe Patroni Griffi. E benché corteggiatissima dal cinema, privilegiò sempre la carriera teatrale. Fu più per curiosità, forse, che partecipò ad alcune fiction televisive, genere che presto catalogò, "spesso recitazione pessima storie scopiazzate". Mentre al cinema fu il Grillo parlante in 8 e 1/2di Fellini, partecipò a Io la conoscevo bene (1965) di Antonio Pietrangeli, all'horror La tarantola dal ventre nero di Paolo Cavara (1971) e a Non ho sonno di Dario Argento (2001). Fece anche un'incursione a Hollywood, in Quando muore una stella (The Legend of Lylah Clare, 1968) di Robert Aldrich.

r.it

mercoledì 1 maggio 2013

MARCONI: UN GRANDE INVENTORE!!!


IL 25 APRILE SI È FESTEGGIATA LA NASCITA DI GUGLIELMO MARCONI, UNO TRA I PIÙ GRANDI INVENTORI DELL’ERA MODERNA. L’ITALIA LO LASCIA EMIGRARE IN INGHILTERRA, MA IL SUO GENIO VA AL DI LÀ DELLE FRONTIERE: COME LE ONDE RADIO...

                  http://youtu.be/T2_q3m21ol4 :  Marconi rievoca i primi esperimenti



Premio Nobel per la fisica nel 1909, Guglielmo Marconi nasce il 25 aprile 1874. Trascorre l'infanzia a Pontecchio, Villa Griffone, cittadina vicino a Bologna, dove sviluppa le prime curiosità scientifiche e matura la sua grande scoperta, l'invenzione della radio. E' proprio qui infatti che lo scienziato lancia da una finestra, tramite l'invenzione di un'antenna trasmittente, il primo segnale di telegrafia senza fili, nell'anno 1895, attraverso quella che diverrà poi "la collina della radio".
Marconi dedicherà tutta la sua vita allo sviluppo e perfezionamento delle radiocomunicazioni. Studia privatamente; ha vent'anni quando muore il fisico tedesco Heinrich Rudolf Hertz: dalla lettura delle sue esperienze, Marconi prenderà ispirazione per quei lavori sulle onde elettromagnetiche che l'occuperanno per tutta la vita.
Forte delle sue scoperte e galvanizzato dalla prospettive che potevano aprirsi, nel 1897 fonda in Inghilterra la "Marconi's wireless Telegraph Companie", non prima di aver depositato, a soli ventidue anni, il suo primo brevetto. I benefici della sua invenzione si fanno subito apprezzare da tutti; vi è un caso in particolare che lo dimostra in modo clamoroso: il primo salvataggio, a mezzo appello radio, che avvenne in quegli anni di una nave perduta sulla Manica.
Nel 1901 vengono trasmessi i primi segnali telegrafici senza fili tra Poldhu (Cornovaglia) e l'isola di Terranova (America settentrionale). La stazione trasmittente della potenza di 25 kW posta a Poldhu Cove in Cornovaglia, come antenna dispone di un insieme di fili sospesi a ventaglio fra due alberi a 45 metri d'altezza, mentre la stazione ricevente, posta a St. Johns di Terranova, è composta solo da un aquilone che porta un'antenna di 120 metri.
Il 12 dicembre 1901 per mezzo di una cuffia e di un coherer vengono ricevuti i primi SOS attraverso l'Atlantico. Così Marconi, non ancora trentenne, è carico di gloria e il suo nome già famoso. Queste sono state le prime trasmissioni transatlantiche.
Nel 1902, onorato e celebrato in ogni dove, Marconi compie alcune esperienze sulla Regia nave  Carlo Alberto, provando inoltre la possibilità dei radiocollegamenti tra le navi e con la terra.
Pochi anni dopo, i 706 superstiti del noto disastro del Titanic devono la salvezza alla radio e anche per questo l'Inghilterra insignisce Marconi del titolo di Sir, mentre l'Italia (solo ora...) lo fa Senatore (1914) e Marchese (1929).
Nel 1914, sempre più ossessionato dal desiderio di allargare le potenzialità degli strumenti partoriti dal suo genio, perfeziona i primi apparecchi radiotelefonici. Inizia poi lo studio dei sistemi a fascio a onde corte, che gli permettono ulteriori passi in avanti oltre alla possibilità di proseguire quegli esperimenti che non si stancava mai di compiere. In questo periodo si interessa anche al problema dei radio-echi.
Nel 1930 viene nominato presidente della Real Accademia d'Italia. Nello stesso anno inizia a studiare le microonde, preludio all'invenzione del radar.
Guglielmo Marconi muore a Roma all'età di 63 anni, il 20 luglio 1937, dopo essere stato nominato dottore honoris causa dalle università di Bologna, di Oxford, di Cambridge, e di altre università italiane, senza dimenticare che all'Università di Roma è stato professore di radiocomunicazioni.

http://youtu.be/QnkXDxn2dz8 : piccolo, ma interessante documentario su Marconi