sabato 17 maggio 2014

MANI PULITE: LA STORIA SI RIPETE

MANI PULITE È STATO IL PIÙ GRANDE SCANDALO DEGLI ULTIMI 30 ANNI.
IL CAPO DEL GOVERNO CRAXI COSTRETTO ALL'ESILIO E CONDANNATO IN CONTUMACIATA.
SUBITO DOPO COMINCIA L'ERA BERLUSCONI E POLITICA E MAFIA DIVENTANO UNA COSA SOLA.
MA NASCE ANCHE IL BERLUSCONISMO: UNA FILOSOFIA DI VITA: PAGANDO, ANCHE CON ZERO CAPACITÀ (PERSONALI, PROFESSIONALI, IMPRENDITORIALI, COMMERCIALI, ECC. ECC.), POSSO ARRIVARE OVUNQUE!!

I RISULTATI? MAH!! BASTA GUARDARSI ATTORNO... E UNA PAROLA NASCE SPONTANEA: AUGURI!!!




In questa intervista Antonio di Pietro parla di quello che è successo 22 anni fa, quando era a capo del pool che indagò e condannò una parte, purtroppo piccolissima, la punta dell'iceberg, che si basava sulle tangenti a qualsiasi livello e dentro qualsiasi istituzione e imprendimenti.

Oggi di volta in volta si scoprono scandali e sempre nuove mega tangenti. Ma tutto questo nasce da una nuova filosofia di vita, una nuova mentalità che si riproduce alla velocità come un virus. Politica, sanità, commercio, magistratura, trasporti, banche, forze dell'ordine, scuola, concorsi, appalti, ecc. ecc. si fondano su questa base e tipo di pensiero e fondano le loro relazioni su quanto descritto. L'ipocrisia al potere, con tutti i suoi figli.

Qualcuno diceva che la democrazia è morta con Pericle...

MANI PULITE

L'espressione Mani pulite designa una controversa stagione degli anni novanta caratterizzata da una serie di indagini giudiziarie condotte a livello nazionale nei confronti di esponenti della politica, dell'economia e delle istituzioni italiane. Le indagini portarono alla luce un sistema di corruzione, concussione e finanziamento illecito ai partiti ai livelli più alti del mondo politico e finanziario italiano detto Tangentopoli. Furono coinvolti ministri, deputati, senatori, imprenditori, perfino  presidenti del Consiglio.

Le inchieste furono inizialmente condotte da un pool della Procura della Repubblica di Milano (formato dai magistrati Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo, Francesco Greco, Gherardo Colombo, Tiziana Parenti, Ilda Boccassini e guidato dal procuratore capo Francesco Saverio Borrelli e dal suo vice Gerardo D'Ambrosio) e allargate a tutto il territorio nazionale, diedero vita ad una grande indignazione dell'opinione pubblica e di fatto rivoluzionarono la scena politica italiana. Partiti storici come la Democrazia Cristiana, il Partito Socialista Italiano, il PSDI, il PLI sparirono o furono fortemente ridimensionati, tanto da far parlare di un passaggio ad una Seconda Repubblica.

Il primo ad usare l'espressione Mani pulite fu il politico italiano Giorgio Amendola, deputato per il Partito Comunista Italiano, in un'intervista a Manlio Cancogni pubblicata da Il Mondo, il 10 luglio 1975, in risposta alle critiche che venivano mosse all'onestà nella gestione delle amministrazioni pubbliche allo stesso PCI: «Ci hanno detto che le nostre mani sono pulite perché non l'abbiamo mai messe in pasta. Come se non si potessero avere dei grandi affari amministrando l'opposizione in una certa maniera». L'espressione Mani pulite fu ripresa e usata, poi dal giornalista e scrittore italiano Claudio Castellacci in un libro dal titolo omonimo pubblicato nel 1977. Tre anni più tardi il presidente della Repubblica Sandro Pertini, in un discorso ai giovani, tenuto nel 1980, disse: «Chi entra in politica, deve avere le mani pulite».

In un'accezione ristretta, l'indagine "Mani pulite" è quella gemmata dal "fascicolo virtuale" (n. 9520) aperto alla Procura della Repubblica presso il tribunale di Milano nel 1991 dal pool omonimo.

In un'accezione allargata, di "Mani pulite" si parla anche per le altre indagini per reati contro la pubblica amministrazione condotte nello stesso periodo dalla procura di Milano (es. ENI-Sai) e, più in generale ancora, in tutte le altre procure italiane che diedero corso nel medesimo periodo ad indagini contro il malaffare in politica (si parlò di "Mani pulite" napoletana per le indagini contro Francesco De Lorenzo, Antonio Gava e Cirino Pomicino, di "Mani pulite" romana per le indagini su Moschetti, di "Mani pulite" genovese, piemontese, ecc.).

Tangentopoli cominciò il 17 febbraio 1992. Il pubblico ministero Antonio Di Pietro chiese ed ottenne dal GIP Italo Ghitti un ordine di cattura per l'ingegner Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio e membro di primo piano del PSI milanese.

Chiesa era stato colto in flagrante mentre intascava una tangente dall'imprenditore monzese Luca Magni che, stanco di pagare, aveva chiesto aiuto alle forze dell'ordine. Magni, d'accordo coi carabinieri e con Di Pietro, fece ingresso alle 17:30 nell'ufficio di Mario Chiesa, portando con sé 7 milioni di lire, corrispondenti alla metà di una tangente richiestagli da quest'ultimo; l'appalto ottenuto dall'azienda di Magni era infatti di 140 milioni e Chiesa aveva preteso per sé il 10%, quindi una tangente da 14 milioni. Magni aveva un microfono e una telecamera nascosti e, appena Chiesa ripose i soldi in un cassetto della scrivania, dicendosi disponibile a "rateizzare" la transazione, nella stanza irruppero i militari, che notificarono l'arresto. Chiesa, a quel punto, afferrò il frutto di un'altra tangente, stavolta di 37 milioni, e si rifugiò nel bagno attiguo, dove tentò di liberarsi del maltolto buttando le banconote nel water; ma invano.

La notizia fece scalpore e finì sulle prime pagine dei quotidiani e dei telegiornali. Bettino Craxi, leader dello stesso PSI, con l'obiettivo di ritornare alla presidenza del Consiglio, dopo le elezioni politiche di primavera, negò, intervistato dal Tg3, l'esistenza della corruzione a livello nazionale, definendo Mario Chiesa un mariuolo isolato, una "scheggia impazzita" dell'altrimenti integro Partito Socialista che "in cinquant'anni di amministrazione a Milano, non aveva mai avuto un solo politico inquisito per quei reati"...
(fonte internet)

Il resto è storia recente, con l'entrata in politica di Berlusconi...


sabato 10 maggio 2014

LE VERITÀ DELLA SINDONE

ESSENDO NATO A TORINO E DOPO AVERCI ABITATO PER 25 ANNI, POSSO SENZ'ALTRO AFFERMARE CHE UN SIMBOLO IMPORTANTE DI QUESTA CITTÀ È LA PRESENZA DELLA SINDONE O SACRO SUDARIO, CHE È DA SEMPRE FONTE DI DEVOZIONE, MA ANCHE DI DISCUSSIONI, CONFRONTI E CONTINUE RICERCHE. NEGLI ULTIMI ANNI, GRAZIE ALLA TECNICHE INFORMATICHE E DAPPRIMA ALLA FOTOGRAFIA, SIAMO RIUSCITI A SCOPRIRE REALTÀ VELATE E MISCONOSCIUTE DEL LENZUOLO PIÙ FAMOSO DELLA STORIA. DUE MONETE DEL TEMPO DI PILATO RINVENUTE SUGLI OCCHI DELL'IMMAGINE DEL VOLTO E, POCHI ANNI FA, "L'IMPRONTA DEL CARTELLO I.N.R.I. IMPRESSO NELLA RELIQUIA" (BARBARA FRALE).





VIDEO SULLA SINDONE

MUSEO DELLA SINDONE DI TORINO. PRESENTAZIONE:      http://youtu.be/UQV1c02smvs

BREVE, MA  ESAUSTIVA SINTESI:    http://youtu.be/Dyy13kOEyL4

ULTIME SCOPERTE SULLA FORMAZIONE DELL'IMMAGINE:   http://youtu.be/awVb1CKtnJs

DOCUMENTARIO INGLESE (UN PO' DATATO):  http://youtu.be/MZkdBkzPR3E


Cos'è la Sindone
La Sindone è un lenzuolo di lino tessuto a spina di pesce delle dimensioni di circa m. 4,41 x 1,13, contenente la doppia immagine accostata per il capo del cadavere di un uomo morto in seguito ad una serie di torture culminate con la crocefissione.
L'immagine è contornata da due linee nere strinate e da una serie di lacune: sono i danni dovuti all'incendio avvenuto a Chambéry nel 1532.  
Secondo la tradizione si tratta del Lenzuolo citato nei Vangeli che servì per avvolgere il corpo di Gesù nel sepolcro. (...)


Certamente la Sindone, per le caratteristiche della sua impronta, rappresenta un rimando diretto e immediato che aiuta a comprendere e meditare la drammatica realtà della Passione di Gesù. Per questo il Papa l’ha definita “specchio del Vangelo”

Cenni storici 
A tutt’oggi le prime testimonianze documentarie sicure e irrefutabili relative alla Sindone di Torino datano alla metà del XIV secolo, quando Geoffroy de Charny, valoroso cavaliere e uomo di profonda fede, depose il Lenzuolo nella chiesa da lui fondata nel 1353 nel suo feudo di Lirey in Francia, non lontano da Troyes.

Nel corso della prima metà del ‘400, a causa dell’acuirsi della Guerra dei cento anni, Marguerite de Charny ritirò la Sindone dalla chiesa di Lirey (1418) e la portò con sé nel suo peregrinare attraverso l’Europa. Finalmente ella trovò accoglienza presso la corte dei duchi di Savoia, alla quale erano stati legati sia suo padre sia il secondo marito, Umbert de La Roche. Fu in quella situazione che avvenne, nel 1453, il trasferimento della Sindone ai Savoia, nell’ambito di una serie di atti giuridici intercorsi tra il duca Ludovico e Marguerite.


A partire dal 1471, Amedeo IX il Beato, figlio di Ludovico, incominciò ad abbellire e ingrandire la cappella del castello di Chambéry, capitale del Ducato, in previsione di una futura sistemazione della Sindone.
Dopo una iniziale collocazione nella chiesa dei francescani, la Sindone venne definitivamente riposta nella Sainte-Chapelle du Saint-Suaire. In questo contesto i Savoia richiesero e ottennero nel 1506 dal Papa Giulio II il riconoscimento di una festa liturgica propria, per la quale fu scelto il 4 maggio. II 4 dicembre 1532 un incendio devastò la Sainte-Chapelle e causò al Lenzuolo notevoli danni che furono riparati nel 1534 dalle Suore Clarisse della città.

Emanuele Filiberto trasferì definitivamente la Sindone a Torino nel 1578. Il Lenzuolo giunse in città il 14 settembre di quell’anno, tra le salve dei cannoni, in un'atmosfera di grande solennità.
La Sindone restò, da quel momento, definitivamente a Torino dove, nei secoli seguenti, fu oggetto di numerose ostensioni pubbliche e private. La religiosità del Piemonte (e non solo) fu ovviamente molto influenzata da questa presenza così importante. Ne sono testimonianza viva numerosi dipinti rinvenibili nella capitale e in molti paesi del ducato. Anche le grandi e solenni ostensioni, molto frequenti nei due secoli barocchi, ne sottolinearono l’aspetto devozionale pubblico.
(FONTE: www.sindone.org)

INFINE, L'ANNO SCORSO LA RICERCATRICE E SCRITTRICE TORINESE BARBARA FRALE
HA SCOPERTO SUL LENZUOLO LE SCRITTE I.N.R.I. NELLE TRE LINGUE, SCRIVENDO COSÌ UN LIBRO: "LA SINDONE DI GESÙ NAZARENO", DOVE DESCRIVE LE SUE RICERCHE.













Una ricercatrice, esperta in storia  e "Ufficiale"(Funzionaria in servizio permanente) dell'Archivio Vaticano, da alcuni anni stava lavorando con molta intensità ad uno studio puramente scientifico del reperto più importante e sacro della religione cristiana, su cui, ancora, ci sono molti dibattiti. Questa giovane studiosa è Barbara Frale che, con Francesco Tommasi e Simonetta Cerrini, guida le ricerche e gli studi sui Templari. Il "lenzuolo" di Cristo, si sa, è stato sottoposto soprattutto negli ultimi anni a numerose ricerche e studi, per mezzo di tecniche sempre più approfondite, andando a ricercare prove, dati, anche a livello microscopico e di raggi elettromagnetici. Nel 1978, a seguito del negativo della fotografia della Sindone, che rivelò dati incredibili, si notò subito un particolare. In un lembo di stoffa della stessa era stata individuata una macchia anomala; approfondendo l'ingrandimento si era notato che quella che appariva come una macchia, in realtà era un testo, ma ancora troppo piccolo e sporco da consentirne la lettura. Gli studi sono proseguiti avvalendosi di numerose tecniche, fino a quando non si è riusciti a decifrare la scritta. Questa è una sola, non un testo elaborato, ma riprodotta in tre lingue(quelle ufficiali di Gerusalemme): Latino, Greco ed Aramaico. Questo elemento è già un qualcosa di particolare e che ha fatto riflettere gli studiosi sollevando non pochi dubbi sulla veridicità della Sindone e sul perché, soprattutto, fosse presente una scritta su un lenzuolo vestito da un condannato a morte ormai deceduto. Non era usanza realizzare queste scritte, così ha sollevato un grosso polverone e dubbi sul perché; ma una prima ipotesi elaborata dalla Frale è che questa si sarebbe formata per contatto, magari con cartigli. Un'ipotesi è che queste fossero presenti, perché questo sarebbe stato un condannato molto importante, ritenuto pericoloso per l'ordine pubblico e che, così, quelle scritte avrebbero certificato la sua morte.

Sindone: le prove della resurrezione

“Tutta la terra desidera il tuo volto”. In questa frase della liturgia sta il segreto della Sindone che continua ad attrarre milioni di persone. E’ l’attrazione per colui che la Bibbia definiva “il più bello tra i figli dell’uomo”. E che qui è “fotografato” come un uomo macellato con ferocia.
La Sindone non è solo “una” notizia oggi, perché inizia la sua ostensione. E’ “la” notizia sempre.
Perché documenta – direi scientificamente – la sola notizia che – dalla notte dei tempi alla fine del mondo – sia veramente importante: la morte del Figlio di Dio e la sua resurrezione cioè la sconfitta della morte stessa.
Sì, avete letto bene. Perché la sindone non illustra soltanto la feroce macellazione che Gesù subì, quel 7 aprile dell’anno 30, con tutti i minimi dettagli perfettamente coincidenti con il resoconto dei vangeli, ma documenta anche la sua resurrezione: il fatto storico più importante di tutti i tempi, avvenuta la mattina del 9 aprile dell’anno 30 in quel sepolcro appena fuori le mura di Gerusalemme.
Che Gesù sia veramente vivo lo si può sperimentare – da duemila anni – nell’esperienza cristiana.
Attraverso mille segni e una vita nuova. Ma la sindone porta traccia proprio dell’evento della sua resurrezione.
Ce lo dicono la medicina legale e le scoperte scientifiche fatte con lo studio dettagliato del lenzuolo per mezzo di sofisticate apparecchiature. Cosicché questo misterioso lino diventa una speciale “lettera” inviata soprattutto agli uomini della nostra generazione, perché è per la prima volta oggi, grazie alla moderna tecnologia, che è possibile scoprire le prove di tutto questo.
Cosa hanno potuto appurare infatti gli specialisti? In sintesi tre cose.
Primo. Che questo lenzuolo – la cui fattura rimanda al Medio oriente del I secolo e in particolare a tessitori ebrei (perché non c’è commistione del lino con tessuti di origine animale, secondo i dettami del Deuteronomio) – ha sicuramente avvolto il corpo di un trentenne ucciso (morto tramite il supplizio della crocifissione con un supplemento di tormenti che è documentato solo per Gesù di Nazaret).
Che ha avvolto un cadavere ce lo dicono con certezza il “rigor mortis” del corpo, le tracce di sangue del costato (sangue di morto) e la ferita stessa del costato che ha aperto il cuore.
Secondo. Sappiamo con eguale certezza che questo corpo morto non è stato avvolto nel lenzuolo per più di 36-40 ore perché, al microscopio, non risulta vi sia, sulla sindone, alcuna traccia di putrefazione (la quale comincia appunto dopo quel termine): in effetti Gesù – secondo i Vangeli – è rimasto nel sepolcro dalle 18 circa del venerdì, all’aurora della domenica. Circa 35 ore.
Terza acquisizione certa, la più impressionante. Quel corpo – dopo quelle 36 ore – si è sottratto alla fasciatura della sindone, ma questo è avvenuto senza alcun movimento fisico del corpo stesso, che non è stato mosso da alcuno né si è mosso: è come se fosse letteralmente passato attraverso il lenzuolo.
Come fa la sindone a provare questo? Semplice. Lo dice l’osservazione al microscopio dei coaguli di sangue.
Scrive Barbara Frale in un suo libro recente: “enormi fiotti di sangue erano penetrati nelle fibre del lino in vari punti, formando tanti grossi coaguli, e una volta secchi tutti questi coaguli erano diventati grossi grumi di un materiale duro, ma anche molto fragile, che incollava la carne al tessuto proprio come farebbero dei sigilli di ceralacca. Nessuno di questi coaguli risulta spezzato e la loro forma è integra proprio come se la carne incollata al lino fosse rimasta esattamente al suo posto”.
Lo studio dei coaguli al microscopio rivela che quel corpo si è sottratto al lenzuolo senza alcun movimento, come passandogli attraverso. Ma questa non è una qualità fisica dei corpi naturali:
corrisponde alle caratteristiche fisiche di un solo caso storico, ancora una volta quello documentato nei Vangeli.
In essi infatti si riferisce che il corpo di Gesù che appare dopo la resurrezione è il suo stesso corpo, che ha ancora le ferite delle mani e dei piedi, è un corpo di carne tanto che Gesù, per convincere i suoi che non è un fantasma, mangia con loro del pesce, solo che il suo corpo ha acquisito qualità fisiche nuove, non più definite dal tempo e dallo spazio.
Può apparire e scomparire quando e dove vuole, può passare attraverso i muri: è il corpo glorificato, come saranno anche i nostri corpi divinizzati dopo la resurrezione.
Si tratta quindi di un caso molto diverso dalla resurrezione di Lazzaro che Gesù semplicemente riportò in vita. La resurrezione di Gesù – com’è riferita dai Vangeli e documentata dalla sindone – è la glorificazione della carne non più sottoposta ai limiti fisici delle tre dimensioni, l’inizio di “cieli nuovi e terra nuova”.
La “prova” sperimentale di questa presenza misteriosa di Gesù è propriamente l’esperienza cristiana: Gesù continua a manifestare la sua presenza fra i suoi continuando a compiere i prodigi che compiva duemila anni fa e facendone pure di più grandi.
Ma la sindone documenta in modo scientificamente accertabile l’unico caso di morto che – anziché andare in putrefazione – torna in vita sottraendosi alla fasciatura senza movimento, grazie
all’acquisizione di qualità fisiche nuove e misteriose, che gli permettono di smaterializzarsi improvvisamente e oltrepassare le barriere fisiche (come quella del lenzuolo stesso).
E’ esattamente ciò che si riferisce nel vangelo di Giovanni: quando Pietro e Giovanni entrano nel sepolcro dove erano corsi per le notizie arrivate dalle donne, si rendono conto che è accaduto qualcosa di enorme proprio perché trovano il lenzuolo esattamente com’era, legato attorno al corpo, ma come afflosciato su di sé perché il corpo dentro non c’era più.
Più tardi, aprendo quel lenzuolo, scopriranno un’altra cosa misteriosa: quell’immagine. Ancora oggi, dopo duemila anni, la scienza e la tecnica non sanno dirci come abbia potuto formarsi. E non sanno riprodurla.
Infatti non c’è traccia di colore o pigmento, è la bruciatura superficiale del lino, ma sembra derivare dallo sprigionarsi istantaneo di una formidabile e sconosciuta fonte di luce proveniente dal corpo stesso, in ortogonale rispetto al lenzuolo (fatto anch’esso inspiegabile).
La “non direzionalità” dell’immagine esclude che si siano applicate sostanze con pennelli o altro che implichi un gesto direzionale. E ci svela che l’irradiazione è stata trasmessa da tutto il corpo (tuttavia il volto ha valori più alti di luminanza, come se avesse sprigionato più energia o più luce).
Quello che è successo non è un fenomeno naturale e non è riproducibile. Non deriva dal contatto perché altrimenti non sarebbe tridimensionale e non si sarebbe formata l’immagine anche in zone del corpo che sicuramente non erano in contatto col telo (come la zona fra la guancia e il naso).
Oggi poi i computer hanno permesso di rintracciare altri dettagli racchiusi nella sindone che tutti portano a lui: Gesù di Nazaret.
Dai 77 pollini, alcuni dei quali tipici dell’area di Gerusalemme (quello dello Zygophillum dumosum, si trova esclusivamente nei dintorni di Gerusalemme e al Sinai), alle tracce (sul ginocchio, il calcagno e il naso) di un terriccio tipico anch’esso di Gerusalemme. Ai segni di aloe e mirra usate dagli ebrei per le sepolture.
Infine le tracce di scritte in greco, latino ed ebraico impresse per sovrapposizione sul lenzuolo.
Barbara Frale ha dedicato un libro al loro studio, “La sindone di Gesù Nazareno”. Da quelle lettere emerge il nome di Gesù, la parola Nazareno, l’espressione latina “innecem” relativa ai condannati a morte e pure il mese in cui il corpo poteva essere restituito alla famiglia.
La Frale, dopo accuratissimi esami, mostra che doveva trattarsi dei documenti burocratici dell’esecuzione e della sepoltura di Gesù di Nazaret. Un fatto storico. Un avvenimento accaduto che ha cambiato tutto.
(di Antonio Socci, 11 aprile 2010)

sabato 3 maggio 2014

GIOSUÈ CARDUCCI : UN ALTRO PREMIO NOBEL DELLA LETTERATURA

SONO MOLTO LEGATO A QUESTO POETA E LETTERATO (ESPERTO DI DANTE E DELLE SUE OPERE) IN QUANTO I MIEI GENITORI NACQUERO A CASTAGNETO CARDUCCI, IN TOSCANA, DOVE LO SCRITTORE PASSÒ DIVERSI ANNI DELLA SUA TORMENTATA VITA.
 VISITARE I LUOGHI CANTATI NELLE SUE POESIE È UNA GRANDE EMOZIONE: BOLGHERI, SAN GUIDO, CASTAGNETO, PAESELLI MINUSCOLI MA RICCHI DI STORIA... DI FASCINO: COSE ANTICHE CHE CI RIPORTANO ALLE ORIGINI.
 PER ME QUESTO, VALE PIÙ DI ALTRI; ECCO COSÌ UN ALTRO TASSELLO LEGATO ALLA MIA STORIA CHE VI OFFRO VOLENTIERI...





La seconda parte del video sul Carducci: http://youtu.be/tsC1Xq_G7KY

Giosuè Carducci nasce il 27 luglio 1835 a Valdicastello in provincia di Lucca, da Michele Carducci, medico e rivoluzionario, e Ildegonda Celli, di origini volterrane. Il 25 ottobre 1838 la famiglia Carducci, a causa del concorso vinto dal padre per diventare medico di zona, si trasferisce a Bolgheri, sperduto paesello della Toscana che grazie al poeta diventerà famoso in tutti il mondo. La permanenza nella Maremma è testimoniata e rievocata con affettuosa nostalgia nel sonetto "Traversando la Maremma toscana" (1885) e in molti altri luoghi della sua poesia.

Del nucleo familiare fa anche parte la celeberrima Nonna Lucia, una figura determinante nell'educazione e formazione del piccolo Giosuè tanto che il poeta la ricorda con grande affetto nella poesia "Davanti San Guido". Pochi anni dopo, però (precisamente nel 1842), questa figura per noi ormai nobilmente letteraria muore, gettando Giosuè nella disperazione.

I moti rivoluzionari intanto prendono piede, moti nei quali è coinvolto il passionale e "testacalda" padre Michele. La situazione si complica al punto tale che vengono sparate fucilate contro la casa della famiglia Carducci, in seguito all'acuirsi del conflitto tra Michele Carducci e la parte più conservatrice della popolazione bolgherese; l'evento li costringe al trasferimento nella vicina Castagneto dove rimangono per quasi un anno (oggi conosciuta appunto come Castagneto Carducci).

Il 28 aprile 1849 i Carducci giungono a Firenze. Giosuè frequenta l'Istituto degli Scolopi e conosce la futura moglie Elvira Menicucci, figlia di Francesco Menicucci, sarto militare. L'11 novembre 1853 il futuro poeta entra alla Scuola Normale di Pisa. I requisiti per l'ammissione non collimano perfettamente, ma è determinante una dichiarazione di padre Geremia, suo maestro, in cui garantisce: "... è dotato di bell'ingegno e di ricchissima immaginazione, è colto per molte ed eccellenti cognizioni, si distinse persino tra i migliori. Buono per indole si condusse sempre da giovine cristianamente e civilmente educato". Giosuè sostiene gli esami svolgendo brillantemente il tema "Dante e il suo secolo" e vince il concorso. Negli stessi anno costituì, insieme con tre compagni di studi, il gruppo degli "Amici pedanti", impegnato nella difesa del classicismo contro i manzoniani. Dopo la laurea, conseguita con il massimo dei voti, insegna retorica al liceo di San Miniato al Tedesco.

E' il 1857, anno in cui compone le "Rime di San Miniato" il cui successo è quasi nullo, salvo una citazione su una rivista contemporanea del Guerrazzi. La sera di mercoledì 4 novembre si uccide il fratello Dante squarciandosi il petto con un bisturi affilatissimo del padre; mille le congetture. Si dice perché stanco dei rimbrotti familiari specialmente del padre, che era diventato intollerante e duro anche con i figli. L'anno dopo, ad ogni modo, muore il padre del poeta.

Un anno di lutto e il poeta finalmente si sposa con Elvira. In seguito, dopo la nascita delle figlie Beatrice e Laura, si trasferisce a Bologna, un ambiente assai colto e stimolante, dove insegna eloquenza italiana all'Università. Ebbe così inizio un lunghissimo periodo di insegnamento (durato fino al 1904), caratterizzato da una fervida e appassionata attività filologica e critica. Nasce anche il figlio Dante che però muore in giovanissima età. Carducci è duramente colpito dalla sua morte: torvo, lo sguardo fisso nel vuoto, si porta dietro il suo dolore ovunque, in casa, all'università, a passeggio. Nel giugno 1871 ripensando al figlio perduto compone "Pianto antico" :

L'albero a cui tendevi
La pargoletta mano,
Il verde melograno
Da' bei vermigli fiori
Nel muto orto solingo
Rinverdì tutto or ora,
E giugno lo ristora
Di luce e di calor.
Tu fior de la mia pianta
Percossa e inaridita,
Tu de l'inutil vita
Estremo unico fior,
Sei ne la terra fredda,
Sei ne la terra negra;
Né il sol piú ti rallegra
Né ti risveglia amor.

Negli anni '60, lo scontento provocato in lui dalla debolezza dimostrata, a suo giudizio, in più occasioni dal governo postunitario (la questione romana, l'arresto di Garibaldi) sfociò in un atteggiamento filo-repubblicano e addirittura giacobino: ne risentì anche la sua attività poetica, caratterizzata in quest'epoca da una ricca tematica sociale e politica.

Negli anni successivi, con il mutare della realtà storica italiana, Carducci passa da un atteggiamento violentemente polemico e rivoluzionario a un ben più tranquillo rapporto con lo stato e la monarchia, che finisce per l'apparirgli la migliore garante dello spirito laico del Risorgimento e di un progresso sociale non sovversivo (contro al pensiero socialista).

La nuova simpatia monarchica culmina nel 1890 con la nomina a senatore del regno.

Tornato a Castagneto nel 1879, dà vita, insieme ai suoi amici e compaesani alle celebri "ribotte " durante le quali ci si intrattiene degustando piatti tipici locali, bevendo vino rosso, chiacchierando e recitando i numerosi brindisi composti per quelle occasioni conviviali.

 Come critico, si può dire che non ci sia campo della letteratura italiana che non abbia percorso e talvolta esplorato attentamente: ricordiamo i volumi sul Parini, gli studî sul Leopardi, Ariosto, Tasso, i discorsi su Dante, Petrarca e Boccaccio, e studî e discorsi su minori dei secc. 17º-18º. Anche se difetta di un pensiero organico e coerente, la sua critica è ricca d'intuizioni dell'anima e dei tempi dello scrittore studiato, felicissima nel rappresentare personaggi e ambienti, ricca di notazioni puntuali sulla parola e sulla tecnica letteraria, suggerite al C. dalla sua esperienza e dal suo gusto, le quali approdano alla definizione di valori estetici assai più spesso di quel che il C. stesso non pensasse. Piena di colore è sempre la prosa del C.: nervosa, tagliente, succosa, mobilissima, sapiente impasto di alta letteratura e di parlata viva.

Nel 1906 al poeta viene assegnato il Premio Nobel per la Letteratura ("Non solo in riconoscimento dei suoi profondi insegnamenti e ricerche critiche, ma su tutto un tributo all'energia creativa, alla purezza dello stile ed alla forza lirica che caratterizza il suo capolavoro di poetica"). Le condizioni di salute non gli consentono di recarsi a Stoccolma per ritirare il premio che gli viene consegnato nella sua casa di Bologna.

Il 16 febbraio 1907 Giosuè Carducci muore a causa di una cirrosi epatica nella sua casa di Bologna, all'età di 72 anni.

I funerali si tengono il 19 febbraio e il Carducci viene seppellito alla Certosa di Bologna dopo varie polemiche relative al luogo di inumazione.

Qui una tra le sue poesie più famose ed emozionanti...

Davanti a San Guido

I cipressi che a Bólgheri alti e schietti
Van da San Guido in duplice filar,
Quasi in corsa giganti giovinetti
Mi balzarono incontro e mi guardar.
Mi riconobbero, e— Ben torni omai —
Bisbigliaron vèr' me co 'l capo chino —
Perché non scendi ? Perché non ristai ?
Fresca è la sera e a te noto il cammino.
Oh sièditi a le nostre ombre odorate
Ove soffia dal mare il maestrale:
Ira non ti serbiam de le sassate
Tue d'una volta: oh non facean già male!
Nidi portiamo ancor di rusignoli:
Deh perché fuggi rapido cosí ?
Le passere la sera intreccian voli
A noi d'intorno ancora. Oh resta qui! —
— Bei cipressetti, cipressetti miei,
Fedeli amici d'un tempo migliore,
Oh di che cuor con voi mi resterei—
Guardando lor rispondeva — oh di che cuore !
Ma, cipressetti miei, lasciatem'ire:
Or non è piú quel tempo e quell'età.
Se voi sapeste!... via, non fo per dire,
Ma oggi sono una celebrità.
E so legger di greco e di latino,
E scrivo e scrivo, e ho molte altre virtú:
Non son piú, cipressetti, un birichino,
E sassi in specie non ne tiro piú.
E massime a le piante. — Un mormorio
Pe' dubitanti vertici ondeggiò
E il dí cadente con un ghigno pio
Tra i verdi cupi roseo brillò.
Intesi allora che i cipressi e il sole
Una gentil pietade avean di me,
E presto il mormorio si fe' parole:
— Ben lo sappiamo: un pover uom tu se'.
Ben lo sappiamo, e il vento ce lo disse
Che rapisce de gli uomini i sospir,
Come dentro al tuo petto eterne risse
Ardon che tu né sai né puoi lenir.
A le querce ed a noi qui puoi contare
L'umana tua tristezza e il vostro duol.
Vedi come pacato e azzurro è il mare,
Come ridente a lui discende il sol!
E come questo occaso è pien di voli,
Com'è allegro de' passeri il garrire!
A notte canteranno i rusignoli:
Rimanti, e i rei fantasmi oh non seguire;
I rei fantasmi che da' fondi neri
De i cuor vostri battuti dal pensier
Guizzan come da i vostri cimiteri
Putride fiamme innanzi al passegger.
Rimanti; e noi, dimani, a mezzo il giorno,
Che de le grandi querce a l'ombra stan
Ammusando i cavalli e intorno intorno
Tutto è silenzio ne l'ardente pian,
Ti canteremo noi cipressi i cori
Che vanno eterni fra la terra e il cielo:
Da quegli olmi le ninfe usciran fuori
Te ventilando co 'l lor bianco velo;
E Pan l'eterno che su l'erme alture
A quell'ora e ne i pian solingo va
Il dissidio, o mortal, de le tue cure
Ne la diva armonia sommergerà. —
Ed io—Lontano, oltre Apennin, m'aspetta
La Tittí — rispondea; — lasciatem'ire.
È la Tittí come una passeretta,
Ma non ha penne per il suo vestire.
E mangia altro che bacche di cipresso;
Né io sono per anche un manzoniano
Che tiri quattro paghe per il lesso.
Addio, cipressi! addio, dolce mio piano! —
— Che vuoi che diciam dunque al cimitero
Dove la nonna tua sepolta sta? —
E fuggíano, e pareano un corteo nero
Che brontolando in fretta in fretta va.
Di cima al poggio allor, dal cimitero,
Giú de' cipressi per la verde via,
Alta, solenne, vestita di nero
Parvemi riveder nonna Lucia:
La signora Lucia, da la cui bocca,
Tra l'ondeggiar de i candidi capelli,
La favella toscana, ch'è sí sciocca
Nel manzonismo de gli stenterelli,
Canora discendea, co 'l mesto accento
De la Versilia che nel cuor mi sta,
Come da un sirventese del trecento,
Piena di forza e di soavità.
O nonna, o nonna! deh com'era bella
Quand'ero bimbo! ditemela ancor,
Ditela a quest'uom savio la novella
Di lei che cerca il suo perduto amor!
— Sette paia di scarpe ho consumate
Di tutto ferro per te ritrovare:
Sette verghe di ferro ho logorate
Per appoggiarmi nel fatale andare:
Sette fiasche di lacrime ho colmate,
Sette lunghi anni, di lacrime amare:
Tu dormi a le mie grida disperate,
E il gallo canta, e non ti vuoi svegliare.
— Deh come bella, o nonna, e come vera
È la novella ancor! Proprio cosí.
E quello che cercai mattina e sera
Tanti e tanti anni in vano, è forse qui,
Sotto questi cipressi, ove non spero,
Ove non penso di posarmi piú:
Forse, nonna, è nel vostro cimitero
Tra quegli altri cipressi ermo là su.
Ansimando fuggía la vaporiera
Mentr'io cosí piangeva entro il mio cuore;
E di polledri una leggiadra schiera
Annitrendo correa lieta al rumore.
Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo
Rosso e turchino, non si scomodò:
Tutto quel chiasso ei non degnò d'un guardo
E a brucar serio e lento seguitò.


I CIPRESSI IN DUPLICE FILAR DI BOLGHERI:       http://youtu.be/qNP9uMRQJGA



giovedì 1 maggio 2014

CENTRO ALETTI: UNA RICCHEZZA ARTISTICA E CULTURALE A ROMA

IL CENTRO ALETTI È ORMAI UN PUNTO DI RIFERIMENTO PER L'ARTE. COMBINANDO SPIRITUALITÀ E CREATIVITÀ, ARRIVA ALLE VISCERE ESISTENZIALI DELL'UOMO COME CREATURA DI DIO.
COME SPIEGA BENE RUPNIK IN QUESTA INTERVISTA, L'ARTE AUTOREFERENZIALE DIFFERISCE MOLTO DA UNA VISIONE TEOCENTRICA CRISTIANA.
IL MOSAICO VISTO COME "CAMMINO" DI PURIFICAZIONE.


   Marko Ivan Rupnik


Che cos’è il Centro Aletti

È un centro di studi e ricerche che si affianca alla missione che la Compagnia di Gesù svolge al Pontificio Istituto Orientale. I gesuiti lo hanno aperto in un
palazzo di stile liberty di fine Ottocento, donato dalla signora Anna Maria
Gruenhut Bartoletti Aletti alla Compagnia di Gesù con il desiderio che
diventasse un centro di incontro e di riflessione interculturale. 

Il Centrum Aletti Velehrad-Roma (a Olomouc, nella Repubblica Ceca) è il primo centro affiliato.

Per chi è il Centro

Il Centro Aletti è primariamente rivolto a studiosi e artisti di ispirazione
cristiana del centro ed est Europa, per creare l’occasione di un incontro tra
loro e i colleghi dell’ovest. 


Incontrarsi nella carità favorisce un’attitudine creativa nel cercare insieme le risposte agli interrogativi delle donne e degli uomini di oggi.

Il Centro promuove la convivenza di ortodossi, cattolici di rito orientale e
latino nell’ottica della crescita di ciascuno nella propria Chiesa, nella
carità dell’unico Cristo.


L’équipe del Centro  



Il Centro Aletti è animato da un’équipe di gesuiti e religiose. I membri dell’équipe sono specializzati in teologia orientale e in altri studi utili a promuovere e a svolgere l’attività e la riflessione teologico-culturale del Centro. 

Lo scopo del Centro

Oggi che si va faticosamente elaborando una civiltà planetaria l’Europa non ha
ancora prodotto una sintesi – né culturale né teologica – che superi il grande
divorzio tra il suo Oriente e il suo Occidente e sia capace così di aprire al
futuro e alle sfide che esso pone. Il Centro Aletti ha come scopo la ricerca di
una fisionomia spirituale cristiana della cultura in un’Europa che ha oggi la
possibilità di riscoprirsi di nuovo integra, una fisionomia che non guarda
nostalgicamente indietro, né semplicemente accetta il nuovo, ma lavora per la
sua trasfigurazione. Insieme si studia l’impatto tra la fede cristiana e le
dinamiche culturali della modernità e della post-modernità. Si cercano le
risposte tenendo conto della tradizione cristiana dell’Oriente e dell’Occidente,
in modo da poter indicare insieme Cristo vivente. 


Il “modo” del Centro

Il modo proprio che caratterizza l’impostazione e costituisce già l’attività del
Centro consiste nel calare lo studio e la ricerca in un ambito relazionale,
sempre “privilegiando i rapporti interpersonali” (Peter Hans Kolvenbach, Padre Generale della Compagnia di Gesù, il 15 luglio 1991). Per questo motivo lo studio è sempre legato alla vita, perché tiene conto delle Chiese e delle persone concrete. 

Al Centro pertanto si lavora secondo il ritmo della vita comunitaria. 

L’attività del Centro

Uno stile di vita dove si integrano la ricerca intellettuale, la spiritualità,
l’apostolato e gli aspetti pratici, concreti del quotidiano. Incontrandosi tra
persone e Chiese, trovando ispirazione nelle tradizioni, facendosi interpellare
dalla contemporaneità, prende corpo una teologia che si traduce nella pastorale
e una pastorale che confluisce nella riflessione. La creazione artistica
contribuisce a dar forma e stimolare una precisa metodologia, in maniera che la teologia, la spiritualità, la liturgia, la cultura costituiscano un organismo
vivo. 


I campi dell’attività

L’ospitalità di studiosi e artisti che per un periodo vivono e lavorano al Centro.
Seminari, corsi e convegni che il Centro organizza in sede e fuori in collaborazione con
altre istituzioni. Le principali tematiche trattate, alla luce della tradizione
dell’Oriente e dell’Occidente, sono la spiritualità e la formazione, la
teologia in dialogo con la cultura contemporanea, l’arte e la liturgia.


L’Atelier dell’arte spirituale è un ambiente in cui l’arte e la fede si possono
incontrare non in una maniera artificiale, ma nella creazione artistica stessa,
approfondendo, al livello teorico e pratico del lavoro, il rapporto tra arte e
luogo liturgico. L’Atelier realizza infatti opere in spazi liturgici. 

Tra questi, particolare rilievo ha assunto negli ultimi anni l'Atelier di teologia “Cardinal Špidlík”. Atelier è una parola che allude ad un ambito in cui confluiscono lo studio, la preghiera, la contemplazione e l'esercizio della comunicazione, la tradizione, la creatività, il sapere e il saper fare, per una visione organica. Si studiano i grandi contenuti della fede e della vita spirituale, tenendo conto della contemporaneità e della memoria dell'intera tradizione della Chiesa indivisa, dando quindi ampio spazio alle tradizioni orientali che in occidente si conoscono in modo superficiale. L'arte nell'Atelier è fondamentale, in quanto educazione ad una mentalità del simbolo.

Le pubblicazioni tramite la casa editrice Lipa, che fa da supporto all’attività
del Centro Aletti. I libri che maturano alla scuola del Centro Aletti sono
caratterizzati da questo approccio esistenziale ai tesori cristiani
dell’Oriente e dell’Occidente, in maniera che chi cerca un nutrimento
spirituale per la fede in questi anni di transizione europea verso una nuova
unità possa attingervi.



Il direttore del Centro è Marko Ivan Rupnik, gesuita di grande spessore teologico e artistico, scrittore di alcuni libri "illuminati":

Nel 1999, con l’Atelier dell'arte spirituale del Centro Aletti, p. Marko Rupnik conclude il rinnovo a mosaico della Cappella Redemptoris Mater affidatogli dal papa Giovanni Paolo II. D’ora in poi, l’arte di Rupnik sarà impegnata in un rapporto dialogico tra l'iconografia della tradizione Orientale e la sensibilità artistica della modernità Occidentale, unite in particolare nella tecnica del mosaico.
La scelta del mosaico nasce a partire da due motivazioni:
“il martello non è come la spatola o il pennello. Quella della pietra è un’arte più esigente, più dura, la pietra ha una sua volontà. Se la prendi per il suo verso ti asseconda, se no ti fai male”. La scelta di lavorare con la pietra porta a purificare l’orizzonte interno e la comunicazione con gli altri
“il mosaico non lo si può fare da soli, è sempre un’opera corale”. Nell’antichità i mosaici erano fatti da artisti che lavoravano sotto la guida di un maestro tutti insieme nel cantiere. Perciò fare mosaici è “un’esperienza ecclesiale”. “Dal lavoro di comunione il movimento materico pian piano si rivela, acquista un volto”. "Qui a Capiago a lavorare con me c'erano dodici artisti. Se ne fossero mancati tre, ne sarebbe venuto un mosaico diverso. Perché nessun mosaico è fatto a tavolino in modo astratto o rigidamente prefissato. Bisogna tenere conto delle persone che concretamente vi lavorano."
I riferimenti di quest’arte musiva sono da ricercare da un lato nella tradizione, dall'altro nella modernità delle correnti più materiche come quelle dell’arte povera.
"Ho impiegato anni di ricerca per arrivare a una semplice essenzialità che si rifà al primo romanico, alla prima epoca bizantina e gotica. Quelle epoche sono di una maturità artistico-spirituale formidabile. Non si tratta di imitare, ma di ispirarsi e ricreare quell’intenzionalità spirituale."
"In questo tempo che scivola sempre di più verso il virtuale e l’immaginario penso sia importante l’amore per la realtà, per la creazione" come fedeltà alla materia amata da un Dio che si è incarnato. "
I mosaici di Rupnik e del Centro Aletti sono composti con tessere irregolari (da pochi millimetri a decine di centimetri) di materiali diversi: granito, marmi, travertino, smalto, argento, madreperla, foglie d'oro. Essi creano un movimento entro cui gli artisti suggeriscono il nesso fra liturgia e storia, fra tempo e salvezza eterna.

In essi il rosso e il blu “esplodono” come segni della “divino-umanità” del Cristo, di Maria, dei suoi discepoli e di quanti si lasciano muovere dallo Spirito: essi sono "fondamento incrollabile dell'armonia dei colori, i due colori in cui i cristiani del primo millennio riconoscevano il divino e l'umano» 


Ho voluto inaugurare di persona questo Centro di Studi e Ricerche “Ezio Aletti”, perché esso è stato recentemente istituito come parte del Pontificio Istituto Orientale, con lo scopo di creare occasioni privilegiate d’incontro e di scambio sul Cristianesimo dell’Est europeo... Qui si vede già come il vivere insieme, il conoscersi, l’affrontare approfondimenti comuni sia una via regale nella ricerca di una più profonda comunione fra le Chiese...” (Giovanni Paolo II - Dicembre 1993)