domenica 24 novembre 2013

PITIGRILLI: uno scrittore spregiudicato e caustico

DINO SEGRE, IN ARTE PITIGRILLI, FU UNO SCRITTORE E GIORNALISTA DEL SECOLO SCORSO. NATO A TORINO, POCO SIMPATIZZANTE, DICIAMO COSÌ, DEL REGIME FASCISTA E DI BENITO MUSSOLINI, EBBE UNA VITA AVVENTUROSA CHE LO PORTÒ ANCHE IN ARGENTINA.
CONOSCIAMOLO MEGLIO...




Le "signorine" secondo Pitigrilli




Pseudonimo di Dino Segre, Pitigrilli nacque a Torino il 5 maggio del 1893; figlio dell’ebreo David Segre, un ex ufficiale dell’esercito, e di Lucia Ellena, appartenente a una antica famiglia di contadini cattolici. All’insaputa del padre, fu battezzato nel 1897 da Lucia: Dino, un giorno, le chiese a quale animale appartenesse la pelliccia del cappotto che stava indossando, e lei rispose: «E’ di petit gris, di piccolo scoiattolo».
Quel nome gli piacque e cominciò a firmare i suoi versi con l’italianizzazione di petit gris; Pitigrilli. Indeciso se percorrere la strada della pittura o quella della scrittura, scelse la seconda.

 Ventenne, si innamorò della scrittrice emancipata Amalia guglielminetti, che gli schiuse le porte del giornalismo e che corrisponderà al suo amore solo alla fine del 1918 (quando lui era venticinquenne). Dal 1914, all’estate del 1915, scrisse per la rivista satirica «Numero», alla quale collaborava fra gli altri anche il vignettista Dudovich.

Pubblicò a metà del 1915 il suo primo volumetto in versi, Le vicende guerresche di Purillo Purilli bocciato in storia; libro promosso dalla redazione di «Numero 97» (una edizione monografica). Si laureò in Giurisprudenza nel 1916 con 77 su 110. Riformato per vizio cardiaco, non poté arruolarsi come volontario e si iscrisse al terzo anno della facoltà di Filosofia solo per seguire meglio una studentessa di cui era rimasto affascinato.

Nel giugno del 1917 scriverà nella rubrica Il Mondo Torinese, il suo primo articolo di cronaca mondana, nella rivista settimanale «Il Mondo»: abbandonati gli iniziali toni apologetici, raccolse fin da subito un ampio consenso fra i lettori che ritrovavano in lui (nei suoi toni caustici e critici, nel suo nonsense, nell’irragionevole e negli sberleffi) la loro stessa posizione anticonformista e spregiudicata.

A metà ottobre del 1918, Piti si recò a Roma con Amalia, dove il giornalista Tullio Giordana, direttore del liberal-democratico «L’Epoca», lo assumerà per il suo giornale, con l’intento di alleggerire il quotidiano facendogli scrivere articoli spumeggianti, per far dimenticare ai lettori per qualche istante le sofferenze del conflitto mondiale.
Per burlarsi dei nazionalisti istriani, che in quegli anni si schieravano con i fiumani manifestanti per l’annessione della città all’Italia, scrisse un articolo (Fiume, città asiatica) che provocò scandalo e irritazione. «L’Epoca» fu sequestrato, Piti dovette rifugiarsi in Svizzera e da lì scrisse ancora per la testata - con la precauzione di Giordana che firmerà i suoi articoli Dino Segre.
Il 2 febbraio del 1920 comparve sul «Mondo» il suo primo articolo da Parigi, dove era stato inviato dal Giordana come corrispondente estero.  Le novelle Purificazione, Whisky e Soda, Il cappello sul letto e Balbuzie, ottennero molto successo, tanto che il periodico andò esaurito in pochi giorni. Lo stile era cinico, spregiudicato, sfrontato, infarcito di paradossi, calembour e impudenze. Era pronto al grande salto.

Nello stesso anno, su pressante richiesta del Matarelli, che voleva sfruttare il momento propizio dello scrittore torinese, pubblicò per Sonzogno la raccolta di undici novelle Mammiferi di lusso (1920) - «atto di uno scrittore coraggioso che strappa alla donna la maschera bugiarda e all’uomo la benda che gl’impedisce di vedere chiaramente nell’animalità i suoi istinti» - e la serie di sette racconti, La cintura di castità (1921).

Quella pubblicazione, dopo una telefonata al Giordana, gli consentì di abbandonare almeno provvisoriamente l’odiato mestiere di giornalista. Si recò quindi a Torino da dove poi fu costretto a fuggire per sbollentare gli animi, dopo un principio di rissa con un gruppo risentito di reduci dall’impresa fiumana. Rifugiatosi a Rapallo, si dedicò alla scrittura di Cocaina (1921), il suo primo romanzo: scritto «nel volgere di due mesi e dieci giorni», racconta una storia d’amore e droga con un campionario di motti e battute nel miglior stile graffiante.

Quel libro generò in Italia una grande polemica: accusato dal quotidiano «Il Popolo d’Italia» (diretto da Benito Mussolini) e difeso dalla prestigiosa rivista «Ordine Nuovo» (fondata da Antonio Gramsci), Piti si vide al centro del nascente dibattito sulla problematica questione della droga che, proprio in quegli anni, era diventata un rimedio frequente alle difficoltà esistenziali ed economiche del dopoguerra.

Negli stessi mesi iniziarono i litigi che portarono Amalia ad incontrarlo meno frequentemente. Piti infatti era geloso, nonostante da parte sua non mancassero le relazioni con altre donne; inizialmente a tormentare la coppia fu la stessa gelosia.

Dopo diverse vicissitudini giuridiche, nel 1923 cominciò a scrivere La vergine a 18 carati (1924), il suo secondo romanzo, dall’epilogo tragico e dai temi spiccatamente autobiografici, che presenterà un campionario eccellente di brillanti aforismi, velenose definizioni, battute di spirito e paradossi. L’opera è introvabile. All’epoca Pitigrilli, che diventò lo scrittore più letto in Italia, tentò con Amalia di affrontare anche il genere della commedia teatrale. Strada che tuttavia interruppe bruscamente riavvicinandosi a quell’odiato giornalismo che ormai dal ’22, con Mussolini agli esordi di presidente del Consiglio dei ministri, era profondamente mutato.

All’indomani dell’uscita de La vergine, si impegnò nel realizzare un progetto che aveva in mente da tempo: una rivista che (lo chiarirà subito) non avrà intenti morali; che dovrà essere innovativa a livello grafico e che dovrà contenere «le novelle dei massimi scrittori italiani». Nel primo numero del quindicinale «Le Grandi firme» (1 luglio 1924), mancherà la firma della Guglielminetti, che non verrà successivamente chiamata a partecipare alla redazione; Amalia troncò definitivamente il rapporto con il suo efebo biondo alla fine dell’agosto dello stesso anno. Ad ottobre la rivista lancerà una competizione per la pubblicazione dei racconti alla quale parteciperanno le migliori firme disponibili; fra gli altri: Massimo Bontempelli, Corrado Alvaro, Achille Campanile, Ferdinando Russo, Roberto Bracco, Luigi Pirandello, Grazia Deledda e Alfredo Panzini. Nonostante il successo editoriale, non mancheranno gli scontri con il versante politico, con i benpensanti, i moralisti e Alessandro Giuliani (caporedattore del «Popolo d’Italia» guidato da Arnaldo Mussolini dall’1 novembre ‘22), che definirà la pubblicazione «pozzo nero» e «letame». Calmati i toni dello scontro dialettico, Piti varerà «Il Dramma» (1 dicembre 1925), rivista mensile di commedie di gran successo.

«Io derido i moralisti in quanto insistono nel pregiudizio, nella menzogna convenzionale, nell’ipocrisia».

L’enorme successo editoriale delle due pubblicazioni, e l’assoluzione alla condanna per oltraggio al pudore, spingeranno Pitigrilli a pubblicare una terza rivista; affidata la direzione ad Anselmo Jona, l’1 luglio 1926 uscì il primo numero di «La Grandi novelle», che conteneva un feroce attacco alla Guglielminetti, la quale rispose all’attacco un mese dopo dal suo neonato quindicinale «Le Seduzioni».

Il litigio non si placò e dopo colpi bassi, per deplorevoli fatti e per diverse spiacevoli vicissitudini redazionali, alle 9.30 dell’11 gennaio 1928, Pitigrilli venne arrestato. Le accuse furono: «offese alla persona di Mussolini; attività politica contraria alle istituzioni e al regime; immoralità privata e diffusa a mezzo di pubblicazioni.» Il 23 gennaio dello stesso anno, un telegramma al ministero renderà noto che la commissione «riconosciuta all’unanimità l’innocenza dell’accusato», ha dovuto chiedere al procuratore del re «il fermo del delatore Jona e la denuncia di Amalia Guglielminetti per falso provato». La scarcerazione immediata di Pitigrilli avvenne il 24 gennaio 1928 alle ore 11.

Dopo cinque anni di silenzio venne pubblicato quello che per la critica sarà il miglior romanzo di Pitigrilli; L’esperimento di Pott (agosto 1929). Nel frattempo «Grandi firme», com’era accaduto per «La Voce» di Giuseppe Prezzolini, ma sicuramente con minore autorevolezza, diventò una sorta di quadrivio dove transitarono intellettuali fascisti e antifascisti.

A partire dal 1926 con l’instaurazione della dittatura fascista, iniziò la resistenza, organizzata in diversi nuclei di oppositori nelle principali città del Nord. L’Ovra, la polizia politica fascista, sgominato il comitato centrale italiano con sede a Milano, concentrò le proprie attenzioni su Torino, dove rimaneva l’organizzazione più risoluta contro il regime. La fazione torinese aveva creato un giornale, “Voci d’Officina”, con il quale assumerà una fisionomia operistica. Colpito il gruppo una prima volta, nel 1931 si riorganizzò sotto la guida di Leone Ginzburg; costituito perlopiù da intellettuali ebrei, ne faranno parte Vittorio Foa, Massimo Mila, Mario e Alberto Levi, e Sion Segre Amar, il cugino dell’efebo biondo.

Pitigrilli, «un ebreo che per le sue vicende personali non aveva simpatia per gli altri israeliti», entrò nel maggio del 1930 nel libro paga dell’Ovra - da qui la nomea di doppiogiochista, trasformista - e fu assunto quale informatore per la Francia; dalle organizzazioni “massoniche” parigine come la Concentrazione antifascista e Giustizia e Libertà (fondata da Carlo Rosselli, Emilio Lussu e Fausto Nitti), partivano infatti le direttive per organizzare gli attentati per colpire e destabilizzare il regime italiano.

Nel maggio del 1931 uscì un romanzo breve con altri nove racconti, raccolti in un unico libro: I vegetariani dell’amore. Il 12 giugno del 1934, SOS (poi Pericle e 343 - queste le firma di Pitigrilli nelle corrispondenze spionistiche), forte del suo insospettato antifascismo e del suo legame familiare con Sion (già arrestato nell’imminenza del referendum del 25 marzo perché sorpreso al confine svizzero con un carico di manifestini e un trentina di copie dei «Quaderni di GL» – Giustizia e Libertà - da portare a Torino per invitare gli elettori a votare NO), riuscì a conoscere personalmente Carlo Rosselli e ad informare gli agenti dell’Ovra sui movimenti dei principali gruppi avversi al regime.

Il 5 dicembre 1931 sposò la ragazza che conobbe grazie all’amico musicista Marcello Boasso. Lei è Deborah Senigallia, figlia di un ricco industriale laniero torinese produttore di un famoso organzino. Nel giugno del ’32 nacque Gianni, loro figlio. Nella primavera del 1934, Piti da Parigi spedì una lettera alla moglie che viveva a Torino: non sono «fatto per vivere da consorte. Certi uomini nascono per il matrimonio. Altri no. Abbi pazienza. Sei giovane. Rifatti una vita.»

Ormai completamente entrato da spia all’interno di GL, firmò articoli sotto falso nome su quella pubblicazione, dopo aver prudentemente avvertito i suoi padroni romani. Spesso a Torino, incaricato di sorvegliare il settore degli antifascisti ebrei, si incontrerà con Alberto Levi e Vittorio Foa. Dalla metà del 1934, Pitigrilli si impegnò nella ricerca della mente che si muove sotto la Mole Antonelliana; inizialmente riterrà fosse Luigi Einaudi, ma quando si trovò di fronte al vero capo degli antifascisti torinesi, il pittore e scrittore Carlo Levi, egli non fu capace di riconoscerlo, anche se intuì che dietro a quel personaggio c’era «un mondo silenzioso e guardingo». Tradendo la fiducia di molti, da spia allargò le sue frequentazioni anche a Parigi, dove conobbe, fra gli altri, Angelo Tosca (che con Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti e Umberto Terracini aveva fatto parte del gruppo torinese «Ordine nuovo»).

II rapporto con l’Ovra servì a Piti anche per mettere in pratica vendette letterarie; infatti, a quasi quindici anni dalla pubblicazione di Mammiferi di lusso, Dino Segre era considerato uno scrittore superato. In tempi di regime era nata una nuova generazione letteraria; fra i principali ricordiamo: Elio Vittorini, Alberto Moravia, Curzio Malaparte (fondatore de «La conquista dello Stato» nel ’24 e, con Bontempelli, de «La Fiera Letteraria») e Ignazio Silone.

15 maggio 1935: alle 7 di mattino la polizia eseguì una retata fra gli antifascisti che per quattordici anni erano stati controllati da Pitigrilli. Per non compromettere la sua posizione Piti pianificherà un arresto programmato ma il piano venne accantonato da Roma - «presenta diversi aspetti pericolosi»; questa la motivazione. Dopo lo smantellamento del gruppo torinese di GL (nel luglio del ’35, Carlo Levi, Pavese e Alberto Levi furono condannati al confino; Norberto Bobbio, Luigi Einaudi e Luigi Salvatorelli ammoniti) la carriera spionistica dello scrittore fu compromessa irrimediabilmente dal verbale tratto dalla dichiarazione di Michele Giua, arrestato il 15 maggio, che aveva capito (con Vittorio Foa – costretto però al silenzio perché in segregazione) che Dino Segre era il responsabile delle spifferate alla polizia.

Nella primavera-estate del 1936, accompagnando la ex moglie dal dentista per curare il loro Gianni, Piti si scontrò in auto e ne nacque una vertenza giudiziaria per la quale si fece assistere dall’avvocatessa Lina Furlan, conosciuta due anni prima nel salotto della Tommasi, nonché amica di entrambi. Appena si rividero fu colpo di fulmine. Uscirà in quell’anno Dolicocefala bionda, la sua settima opera, che non raggiunse livelli di vendita alti poiché il paese, boicottato dal regime, era ancora stordito dall’appena conclusa guerra d’Abissinia.

Nel frattempo «Le Grandi firme», affidato a Cesare Zavattini dall’aprile del ’37, venne definitivamente chiuso dal regime perché il Duce trovò sconveniente la pubblicazione di un racconto ambientato nella povertà e nella criminalità italiane – la novella Fame, di Paola Masino. L’immagine della nazione doveva rifulgere di aspetti edificanti, positivi, esortativi. L’antifascista Lussu, rispondendo al saluto di Piti a Parigi, dandogli della carogna gli fece capire che ormai si sapeva tutto sul suo conto. Anche il regime non gli concesse sconti o favoritismi e dopo averlo fatto controllare da una spia decise di licenziarlo (20 settembre 1939). Dino Segre inoltre si sentì dire che era considerato un fuoriuscito e il ministro per la Cultura Popolare lo trattò da nemico. Sentendosi tagliato fuori, pubblicherà in quell’anno Le amanti e la decadenza del paradosso, che passerà inosservato. Il 10 giugno 1940 gli venne imposto di partire per l’Aquila in un campo d’internamento. Grazie al monsignor Montini e all’aiuto dei pochi amici rimasti riuscirà ad evitare l’internamento – in ottobre il provvedimento che lo destinava al confino verrà annullato grazie all’intervento di Edvige Mussolini, smobilitata dall’industriale Garbini. Celebrando in Chiesa il matrimonio con Lina Furlan, nonostante civilmente risultasse ancora legato alla Senigallia, si avvicinò alla conversione. Piti riprese l’attività di scrittore ne «L’Illustrazione del Popolo», firmandosi con l’appellativo Flamel, con articoli che davano consigli colmi di buon senso e saggezza, lontani dai toni che l’avevano reso celebre. Tentò di farsi riassumere all’Ovra e di farsi consegnare la sua patente d’ariano, ma le sue richieste vennero ignorate. Il 4 dicembre 1941, morì Amalia Guglielminetti ma, dopo tante delusioni, il 15 aprile 1943, la seconda moglie gli darà la nascita del figlio Pym.

Il 25 luglio 1943, con l’Italia non ancora occupata dagli alleati, a Torino, davanti al portone della «Gazzetta del Popolo» ci fu una manifestazione per impedire che un triumvirato (un trio direttivo filofascista), “espressione del passato regime”, prendesse possesso del quotidiano; avvicinatosi un blindato per mantenere l’ordine, vi salì sopra un manifestante gridando che aveva “una persona per bene da proporre”. Il guidatore del mezzo militare senza dar tempo allo sconosciuto di saltar giù, diresse il mezzo verso la questura, seguito da parte della folla che voleva chiedere il suo rilascio. Lo sconosciuto era Pitigrilli, che non sentendosi all’altezza di svolgere il compito di direttore di quel quotidiano, accontentò il desiderio della folla acclamante, proponendo il nome di Tullio Giordana, il quale aveva tutte le ragioni d’avventarsi contro il passato regime. Piti, scriverà articoli di denuncia contro l’antico regime, i suoi comandanti, i magistrati, i medici e gli avvocati, rovesciando sugli altri le sue stesse colpe.

Ma la situazione politica mutò nuovamente. Dopo l’occupazione tedesca dell’Italia e l’armistizio, il 13 settembre 1943, Mussolini, liberato dal Gran Sasso, annunciò la creazione della Repubblica sociale italiana. Dino Segre, la moglie Furlan con il figlio, e il cugino Amar, fuggiranno in Svizzera poco prima dell’inizio delle rappresaglie naziste; il 6 ottobre infatti l’Italia adottò le leggi di Norimberga (che per l’accertamento della razza risalgono addirittura al bisnonno). Il 21 agosto 1943, dopo otto anni di reclusione, verrà liberato il professor Michele Giua, una delle vittime dell’operato di Piti ai tempi della sua collaborazione con il regime nell’Ovra. Il caso Pitigrilli, attraverso canali clandestini, raggiungerà Radio Bari. Dopo la Liberazione nella casa di un commissario dell’Ovra verranno trovati i rapporti fra Dino e la polizia politica fascista.

Il 14 settembre 1945, verrà pubblicamente denunciato dal libro, Ricordi di un ex detenuto politico, 1935-1944. Il 15 l’edizione milanese di «Italia Libera» (organo di GL che commise l’ingenuità di rafforzare la credibilità pubblica di quei documenti copiando in calce la firma), su indicazione del direttore Carlo Levi, pubblicherà le copie dei rapporti che Piti inviava a Roma de Torino e Parigi . Dalle colonne della “Gazzetta del Popolo” interverrà anche il fuoriuscito Mario Levi che, il 25 Marzo ’34 a differenza del compagno Sion, riuscì a scampare all’arresto gettandosi in fiume. Piti cercherà di difendersi e di smentire le accuse, talvolta ridicolizzandole. Gianeri, direttore del giornale satirico torinese “Codino Rosso”, appellandosi al governo, chiese la verità, ma Alcide De Gasperi, non sentì ancora la necessità di fare chiarezza poiché temeva che queste avrebbero potuto innescare altre violenze. A dare definitiva autorevolezza alle voci furono gli atti protocollare dello Stato, pubblicati nella “Gazzetta Ufficiale” del 2 luglio 1946. In quel numero, comparve l’elenco dei confidenti della polizia politica fascista. Tra i 622 nomi figura “ Segre Dino (SOS, Pitigrilli, Piti, Pindaro, Pilli, Pericle), fu David e di Lucia Ellena, nato a Torino il 5 maggio 1893, domiciliato a Torino in via Peschiera 28, scrittore pubblicista”.

Nel gennaio del 1947, finisce di scrivere Mosè e il cavalier Levi, che doveva segnare il suo nuovo corso artistico e spirituale. Il libro narra la storia di due famiglie ebree torinesi che attraversano il fascismo, le leggi razziali e la guerra, ma non verrà pubblicato subito. Qualche mese dopo scriverà anche La meravigliosa avventura, volume in cui la conversione è dichiarata in maniera esplicita. Prima ancora di essere pubblicate (1948), queste due opere furono attaccate da Mario Mariani, convinto che il suo amico sia un bieco opportunista e che rifiuta di credere ad un Pitigrilli cattolico - che si difese nell’appendice di trentun pagine a La meravigliosa avventura, risfoderando il suo stile naturale.

L’attenuarsi dei clamori, i cui echi si persero nella tragicità di alcuni fatti del dopoguerra, che vedevano al centro dell’attenzione Piti, portò alcuni politici italiani a proporre la riabilitazione di Dino Segre. Tra questi l’onorevole Giulio Andreotti, un giovane democristiano sottosegretario alla presidenza del Consiglio retta da Alcide De Gasperi. Ad Andreotti parve “molto marcata” la religiosità del suo interlocutore, tuttavia non ci fu nulla da fare. Alla fine del 1947, la commissione per l’esame dei confidenti della polizia fascista, pronunciandosi sulla richiesta di Foa, Giua, Lussu e Garosci, decretò che la colpevolezza della scrittore era stata dimostrata “irrefutabilmente”. L’eco di tale dichiarazione spinse Piti ad abbandonare l’idea di tornare in patria: il 17 febbraio del 1948, lasciò l’Europa per il Sudamerica, mentre la Sonzogno pubblicherà il terzo dei libri che formano il trittico della sua conversione: La piscina di Siloe.

Sbarcato in Argentina con la famiglia, il 28 marzo rinnegò tutti i libri che gli avevano dato fama e ricchezza e ordinò la Sonzogno di non ripubblicarli mai più. Nel frattempo stabilitosi a Buenos Aires, scrisse sulla rubrica Pimientos dulces (peperoni dolci) del quotidiano del pomeriggio, di grande tiratura e diffusione, «La Razon». Nel frattempo, attraverso il giornale vaticano «L’Osservatore Romano» e tramite «Civiltà Cattolica», l’eco del suo successo giunse in Italia. I suoi articoli, con stile agile e scintillante, verranno letti da migliaia e migliaia di argentini. Pitigrilli «durante il decennio della sua permanenza in terra sudamericana, darà alla stampa un numero di libri che è tre volte superiore a quello che ha pubblicato nei ventotto anni precedenti. Ma queste opere non avranno l’originalità espressiva di quelle del primo periodo».

A metà degli anni Cinquanta in Italia il giudice Alvazzi del Frate concesse alla ex-moglie Sinigallia, la separazione legale e l'autore venne condannato a versare alla donna un assegno mensile di settantacinquemila lire al mese; nel 1955 un golpe militare destituirà il dittatore Peron e Piti abbandonerà il continente rientrando a Parigi dove andrà a vivere in rue de Montparnasse ristabilendo i contatti con Sarte, Cocteau e la Beauvoir.

Dal 1961, riprendendo i contatti con la realtà italiana, si accorse che delle sue vicende non era rimasto nient’altro che sfumate tracce. Iscrisse quindi il figlio all’università di Torino e, saltuariamente, rimpatriò nella sua città natale, pur avendo scelto di eleggere la casa parigina a dimora fissa. Scriverà nelle rubriche di tre periodici cattolici («La Rocca», «La casa» e «Il Messaggero di Sant’Antonio»). Negli anni sessanta pubblicò altri nove libri (raccolte di racconti) ma il ’68 l’aveva ormai reso «un’opera d’arte al museo» più che un fenomeno contemporaneo. Nel 1970 presentò un’istanza per sciogliere il matrimonio che lo univa ancora alla Reri: il tribunale concesse alla Senigallia il diritto agli alimenti. Sempre desideroso di far parlare di sé, ritornò dopo dieci anni al romanzo con Nostra signora di miss tif: «una prolissa narrazione, inzeppata di prediche, dove però risaltano parecchie brillanti definizioni che ricordano il primo Pitigrilli, qualche arguto paradosso e molte similitudini scritte alla vecchia maniera».

Rientrato in Italia a fine aprile, dopo aver trascorso una quindicina di giorni con la moglie Lina e il figlio Pym, s’apprestava a ripartire per Parigi quando, l’8 maggio del 1975, vigilia del suo ottantaduesimo compleanno, dopo aver pranzato s’addormento per sempre.


fonte internet

martedì 19 novembre 2013

Claudio Magris e l’Italia: “una nazione dove nessuno più si vergogna”


ABBIAMO GIÀ INCONTRATO CLAUDIO MAGRIS IN UN ARTICOLO DEL GIUGNO SCORSO. QUI IN UN'INTERVISTA CI PARLA DI COME L'ITALIA È CAMBIATA IN QUESTI QUARANT'ANNI, E CON ESSA ANCHE IL CONCETTO DI DECENZA...

      "Altri si vantino dei libri che hanno scritto, io mi vanto dei libri che ho letto..." Borges


 A un certo punto, in una pagina di Dalla parte di Swann, Proust scrive: “Le stazioni sono quei luoghi speciali che, sebbene in pratica non facciano corpo con la città, contengono l’essenza della sua personalità così come ne portano il nome su un cartello segnaletico”. Arrivi a Trieste e sai subito che è vero: scendi dal treno e capisci che sarà complicato entrare in confidenza, avventurarsi nel vento – questo vento, velocissimo e freddo – non sarà affatto una passeggiata. È quasi tutto chiuso per lavori perché il progetto Grandi stazioni non è ultimato: cosa resta diun’identità di confine nel mondo globalizzato? Una possibile risposta si presenta nella vetrina di una cartoleria dove incroci, assieme alla guida della città in diverse lingue, un libro di Claudio Magris. E siccome L’infinito viaggiare ti porta spesso a visitare Microcosmi, eccoci al Caffè San Marco “situato in un’ottima posizione per chi vuole sgranchirsi le gambe e fare un piccolo giro del mondo”. Il professor Magris qui riceve la posta e lavora. “Mi concentro più che a casa. Là ci sono tanti libri, molto più interessanti di quelli che potrei scrivere io. È un formidabile antidotoa quel piccolo delirio di onnipotenza che ti prende quando scrivi un libro e pensi di mettere a posto il mondo: vedi gente che se ne frega e allora ti passa la grandeur. A volte porto anche il mio cane, Jackson”.  Il nome, hommage al generale americano, non stupisce se si considera che il padrone, all’età di 11 anni, ha chiesto ai genitori di anticipare di un giorno i festeggiamenti del proprio compleanno il 10 aprile, perché “il 9 aprile 1865, dopo la battaglia di Appomattox, in Virginia, termina la guerra civile americana”. Dunque, cominciamo da dove siamo.
Professore, lei ha scritto che i caffè sono anche “una specie di ospizio per gli indigenti del cuore”. E “un’accademia platonica”.
È così! Vittorio Emanuele II, per sapere le novità politiche, chiedeva “Cosa si dice da Fiorio?”, un caffè che ho frequentato negli anni torinesi. Tanto che Massimo Mila mi diceva: “Claudio, quando non sei al caffè ti si trova al ristorante”. Mi è dispiaciuto lasciare Trieste, ma ero felice di andare a Torino. Guido Davico Bonino ha dato di me una definizione perfetta, “un torinese di Trieste”. A Trieste si respirava una libertà gipsy, zingaresca. Torino era la frontiera dell’immigrazione, l’Italia che cambiava, ma insieme era la culla di tutto, della resistenza, dall’antifascismo, dell’editoria. Una città correggeva l’altra, ero felicemente bigamo.
Come sta l’Italia dalle finestre del Caffè San Marco?
Gli sguardi a livello preconscio dicono che va tutto sempre peggio. Sono convinto che gli intellettuali non siano per forza buoni analisti. Anzi, spesso chi coltiva un certo tipo di cultura si è dimostrato incapace di capire. Penso a tanti bravi scrittori del secolo scorso, che sono stati fascisti, nazisti o stalinisti, da Pirandello a Hamsun ai francesi che andavano devotamente a Mosca ad assistere alle impiccagioni staliniane dei loro compagni. Céline è un genio, ma forse la sua governante capiva la politica  meglio di lui.
Su Il Corriere ha scritto che la borghesia “pronta e incline a ogni indecenza, ha perso il diritto di definirsi borghese, parola che per Mann, Croce, Einaudi e tanti altri significa tutt’altra cosa. Una borghesia che diventa anche politicamente il contrario di se stessa ossia populismo, democrazia per acclamazione di caudillos”.
Marx parlava di Lumpenproletariat, proletariato intellettualmente e moralmente pezzente, disponibile a qualsiasi manipolazione politica, contrapponendolo al proletariato consapevole. Usò questa parola, lumpen, anche Sandro Pertini a proposito dei brigatisti. Oggi la società italiana è sempre più una pappa gelatinosa, una specie di Lumpenbourgeoisie, di borghesia intellettualmente pezzente anche quando è benestante, che non ha nulla a che vedere con la borghesia classica. Una classe colloidale in cui anche virtù e vizi borghesi sono scomparsi: non c’è più nemmeno quel modo benpensante, che era comunque l’omaggio del vizio alla virtù.
Che danni ha causato la scomparsa della borghesia?
Improvvisamente certe cose, che prima erano date per scontate, non lo sono più state. Se ora mi metto le dita nel naso, lei si offende giusto? Non è un delitto, ma non è educato. Qualcosa, sul piano civilmente più superficiale è cambiato. Fare le corna dietro la testa di un ministro, come ha fatto Berlusconi, non è immorale. Ma ci immaginiamo De Gasperi, alla Conferenza di pace di Parigi che – mentre dice ‘Sento che tutto, tranne la vostra cortesia, è contro di me’ – fa le corna? Sembra un dettaglio folkloristico, in realtà è una premessa per l’ignoranza. Un male terribile che ci affligge, perché se non sappiamo metter in ordine una frase e distinguere tra nominativo e accusativo, non distinguiamo chi ruba e chi viene derubato.
Cosa ha sbagliato la sinistra?
Quando ero adolescente, avevamo una domestica, siora Maria, che era stata condannata a vent’anni di carcere per attività antifascista. Era scappata dall’Italia e poi era tornata. Aveva fatto la seconda elementare,  era di un’intelligenza stupefacente. Era una comunista convinta. Tra i nostri conoscenti c’era una famiglia indifferente al mondo e chiusa in quel che da noi si dice ‘far casetta’, per riferirsi al finto perbenismo del focolare. Un giorno a pranzo Maria discuteva con mio padre, che era stato azionista e poi repubblicano: era la vigilia delle elezioni del ’53, io le chiesi per chi, secondo lei, avrebbe votato questa famiglia di nostri vicini. Lei mi rispose: ‘Non ha nessuna importanza per chi votano’. Io rimasi entusiasta di questa risposta aristocratica, che è tragicamente sbagliata, perché si tratta di milioni di persone, una palude prepolitica, che i vecchi partiti non consideravano e che ci si limitava tutt’al più a controllare. Poi è arrivato Berlusconi e ha detto: io sono come voi, voi siete soggetti. Li ha resi protagonisti, in un chewingum il cui unico valore è il successo. Cento anni fa Il piccolo alpino di Salvator Gotta vendeva più copie delle poesie di Saba, ma nessuno si sognava di pensare che interpretava meglio il suo tempo perché vendeva di più. Oggi a chi non ha successo viene negato il predicato di esistenza. A me non chiedono mai perché non ho letto l’uno o l’altro libro di Dostoevskij o di Dumas, ma perché non ho letto Dan Brown, come se fosse un obbligo. Non è che non ho voluto leggere l’uno o l’altro libro, ma semplicemente non si può leggere tutto. A questo clima però hanno collaborato molti. Anche la sinistra, con quella disastrosa idea egualitarista, con l’università del 30 politico.
Lei che faceva in quegli anni?
Nel ’68 io ero professore di Letteratura tedesca, prima a Trieste poi a Torino, dove ho visto anche la violenza del ’77. Al ’68 non aderii, forse perché capivo Eugène Ionesco quando, come ricorda Davico, ai ragazzi del maggio francese in corteo diceva: ‘Tra dieci anni sarete tutti notai’. E in parte è successo. La colpa della sinistra è stata di non voler più distinguere l’inevitabile gerarchia tra i gradi del sapere dalla falsità e dall’ingiustizia dell’accesso alla cultura. Il problema non è che non bisogna leggere Tolstoj perché è una lettura d’élite, il problema è che tutti, se ne hanno voglia, devono poterlo leggere.
Questo cosa ha prodotto?
Che quasi più nessuno legge Tolstoj. Però non dobbiamo demonizzare quegli anni. Se i miei studenti non volevano venire a lezione, liberissimi: io facevo altro. Ma se si presentavano, era chiaro che in quell’ora si parlava di letteratura tedesca e non di politica. Al massimo se ne parlava al caffè, dopo.
È iniziato allora il decadimento delle istituzioni scolastiche?
Nelle vecchie università c’erano ingiustizie baronali assurde. In quegli anni si sono portate avanti istanze sacrosante, bisogna premetterlo. La cosa paradossale è stata che quel movimento eversivo ha prodotto da un lato un potenziamento delle individualità, poi ha creato una sorta di mistica assembleare che ha soffocato le individualità. La parabola successiva è stata un altro paradosso, una sorta di tecnicizzazione del sapere, in cui i titoli scientifici si valutano a peso. Se Kant fosse stato costretto a scrivere una scemenza ogni due mesi, non avrebbe mai scritto La critica della ragion pura. Il vecchio sistema scolastico italiano, che tutto sommato funzionava, è stato americanizzato. Pensate sia un bene? Nella mia personale esperienza no, se su 39 graduate a cui ho tenuto un corso negli Stati Uniti, sette non avevano mai  sentito nominare Stalin. Io penso che si possa non sapere chi era Amilcare, il padre di Annibale. Ma Annibale bisogna sapere chi è, sennò non capisci nemmeno tutto il resto. Ricordo quando Luigi Berlinguer, da ministro, predicava ‘gli studenti sono clienti’. Una volta gli dissi: no, perché il cliente per definizione ha sempre ragione. Se io vado al ristorante e sui maccheroni al posto del formaggio chiedo lo zucchero, il cameriere me lo porterà. Ma se uno studente mi dice che Dante ha scritto I promessi sposi, mica posso dirgli ‘In genere no, ma per te sì’. Il sistema dei crediti è una sciocchezza che ha distrutto l’Università italiana. Una volta a uno studente che mi spiegava che non veniva a un seminario, che pure gli interessava, perché non dava crediti, ho chiesto: ‘Hai mai baciato gratis una ragazza?’. Investire non vuol dire guadagnare ma spendere. L’idea che ogni cosa che uno fa deve essere tradotta in un vantaggio distrugge la libertà e la creatività.
Perché sapere non ha più un valore?
Intanto c’è una specie di horror vacui verso tutto ciò che riguarda il passato. Un giovanotto di recente mi ha detto che non voleva vedere un film perché era degli anni 80, figuriamoci uno dei decenni precedenti. Una cosa orrenda, vuol dire che quel ragazzo non vedrà mai un capolavoro come Les Enfants du paradis. Guai identificare l’intelligenza con la cultura, ma guai a dire che la cultura non serve a niente. Serve anche a giocare meglio a poker, a capire le relazioni, a stare nel mondo.
Conseguenza di tutto ciò è l’evidente decadenza della classe dirigente.
La difesa della cultura – e degli aoristi greci – ha senso solo a patto di sapere che cultura non è conoscere Platone, ma avere un rapporto critico con il sapere. Voglio dire che il letterato che sforna libri sta in una catena di montaggio esattamente come l’operaio. Le classi dirigenti sono in gran parte formate da persone pochissimo preparate. Una volta ognuno faceva il suo mestiere. Intendo: la Mondadori apparteneva al signor Arnoldo Mondadori, di professione editore; l’Einaudi al signor Giulio Einaudi, Il Corriere della Sera ai fratelli Crespi. Adesso tutti fanno altro, a cominciare dai politici. Che non sanno fare le leggi, perché mancano anche di preparazione giuridica, ma non solo. In La cultura si mangia, Bruno Arpaia e Pietro Greco ricordano le interviste di “cultura generale” ad alcuni deputati e senatori trasmesse da Le Iene. Una parlamentare del Pd, alla domanda cos’è una sinagoga, risponde: ‘È il luogo che le donne musulmane frequentano per pregare il loro Dio, Maometto oppure Allah’. Parliamo di una signora dalla quale dipende se i miei figli avranno o no la pensione, come se il pilota del volo sul quale viaggiamo ignorasse cos’è un aereo.


Magris al Premio Cesare Pavese 2013:
http://youtu.be/hg9Qgk5AFT4


domenica 17 novembre 2013

BIRRA... E SAI COSA BEVI !!!

LA BIRRA. UN PRODOTTO DI ANTICA MEMORIA.
POCHI SANNO CHE NEL 2004 HO APERTO UNA BIRRERIA (IL TNT PUB) A SEGUITO DELLA MIA PASSIONE PER QUESTA MERAVIGLIOSA BEVANDA.
QUANDO PARLIAMO DI BIRRA, VIENE NATURALE LA DIVISIONE TRA QUELLA ARTIGIANALE E QUELLA INDUSTRIALE: DUE PRODOTTI COMPLETAMENTE DIVERSI
IN EUROPA ESISTONO TRADIZIONI ANTICHE COME I POPOLI CHE ABITANO LE TERRE DEL VECCHIO CONTINENTE. VEDIAMO INSIEME DI COSA PARLIAMO...



L'OKTOBERFEST A MONACO DI BAVIERA: LA FESTA PIÙ GRANDE DEL MONDO













Di birra non ce n'è una sola!
Scopri i suoi tanti gusti, colori e gradazioni.




TIPI DI BIRRE

La birra è la bevanda più diffusa sul nostro pianeta e pur essendo una bevanda attualissima vanta origini molto antiche. La sua storia ha oltre cinquemila anni e la sua origine va situata fra Mesopotamia e Antico Egitto. A seconda dei tempi e dei Paesi ha modificato la sua natura, senza però mai tradirla, adeguandosi ai gusti, alla cultura, alla disponibilità delle materie prime. Queste varianti sono pressoché infinite e in continua evoluzione.

Partendo dalle materie prime tradizionali: acqua, orzo, luppolo e lievito, attraverso diversi metodi viene prodotta una varietà quasi infinita di birre.

Ecco alcune delle tipologie di birra esistenti. Il lavoro che stiamo realizzando ha come scopo quello di specificare sempre meglio le caratteristiche e le virtù di queste svariate tipologie di birra, prodotte in tutto il mondo. Alcune categorie risulteranno quindi mancanti o incomplete, l'obiettivo è quindi quello di arrivare ad una definizione quanto più ampia possibile per ogni tipologia, e per fare questo, la conoscenza non si deve mai fermare. E' pur vero che ognuno di noi possiede un giudizio personale, fatto di sensazioni e gusti personalissimi, e quindi difficile, catalogare tutte le birre prodotte nel mondo entro un preciso schema.


Abbazia
Le birre d'abbazia sono prodotte con l'antico metodo dell'alta fermentazione; generalmente corpose e di forte contenuto alcolico (da 6 a 9 gradi alcolici). La loro colorazione varia dall'oro carico, all'ambrato, al rosso cupo, al bruno scuro. Si richiamano alle birre che venivano anticamente prodotte in numerose abbazie belghe. Solitamente non viene prodotta in abbazia, ma secondo ricette di antichi monasteri. In Belgio. dove è piuttosto diffusa, è una birra ad alta fermentazione, decisamente alcolica e strutturata.
Ale
E' il nome con cui i britannici definiscono la birra tradizionale. Identifica birre ad alta fermentazione, di moderato contenuto alcolico e di poca schiuma, da bere a temperatura di cantina. Colori assortiti, sapori anche. Numerose sono le sottotipologie per la british ale: bitter ale, brown ale, mild ale, old ale, pale ale, scotch ale. Molto apprezzata la real ale ovvero la ale prodotta con metodi tradizionali antichi. Le rare ale inglesi di forte gradazione alcolica vengono chiamate Barley wine (vino d'orzo). Anche il Belgio vanta una sua tradizione in fatto di ale. Le ale belghe sono generalmente (ma non sempre) di forte contenuto alcolico.(Bières d'abbay), ma anche in Germania (klosterbier). Il termine indica in senso lato le birre prodotte con il metodo dell'alta fermentazione. In senso stretto identifica una famiglia di birre inglesi aromatiche comprendente numerosi stili.
Altbier
Il nome si riferisce in particolare alla maniera di produrre questa birra. La Altbier, come la Ale, viene fabbricata a temperature più alte per mezzo di un'alta fermentazione; essa matura però, come la birra a bassa fermentazione, a temperature inferiori. E' una birra maltata, morbida, con un carattere amaro. La Altbier ha una colorazione che varia dal ramato o ambrato fino al marrone scuro. Questo tipo di birra tradizionale proviene dal nordovest della Germania, in particolare dalla regione di Düsseldorf, ma oggi le Altbier vengono sempre più prodotte anche in Giappone e America. Ramata, leggera, digestiva, dal gusto fruttato. Possiede un'alcolicità vicina al 4,5%.
Biere Blanche - Witbier
Birra a base di frumento che viene prodotta in Belgio. E' leggermente acidula, di color bianco lattiginoso. Assai rinfrescante e digestiva, con particolarità aromatiche dovute all'aggiunta di coriandolo e curaçao. Birra di frumento belga dall'aspetto opalescente. Al naso e in bocca risulta fresca e speziata. Contiene circa il 5% dì alcol.
Barley wine
Benché molto forte non si tratta certo di un vino, però deve il nome al suo contenuto alcolico, da due a tre volte maggiore di una Ale normale. Viene spesso servita in bicchieri da vino e alcuni tipi maturati in bottiglia migliorano la loro qualità con l'età. E' piena di carattere, maltata, e il suo aroma fruttato si unisce al bouquet del luppolo che, se aggiunto in quantità maggiori, compensa il gusto dolce del malto. Il colore varia dal ramato scuro o oro fino al bruno intenso. Questa Ale forte e robusta è particolarmente adatta come bevanda invernale poiché riscalda con il suo retrogusto persistente e complesso. Viene apprezzata anche come birra da dessert. Birra particolarmente alcolica, facilmente oltre il 9%.
Berliner weisse
Birra di frumento tipica di Berlino con circa il 3% di alcool e dall'aspetto lattiginoso A volte viene servita con succo di frutta per attenuarne la forte acidità.
Bière de garde
Birra del nord della Francia ad alta fermentazione e rifermentata in bottiglia. L'alcool varia tra il 5% e il 7% e il colore è generalmente ambrato.
Biere de mars
Francese a bassa fermentazione prodotta in autunno e consumata per festeggiare l'inizio della primavera. Solitamente è ben strutturata, di colore ambrato e con un'alcolicità vicina al 5%.
Birra di puro malto
Birra prodotta con malto d'orzo e/o malto di frumento, senza l'aggiunta di altri cereali non maltati.
Birra speciale
Per la legge italiana è una birra con almeno 12.5° Plato, e circa 5,4/5.8% di alcool sul volume.
Bitter ale
L'inglese più classica, servita alla spina. Ha circa il 4% di alcol, colore ambrato e carattere luppolato. Le "best" e "special" sono leggermente più alcoliche.
Bock
Birre a bassa fermentazione e a gradazione elevata di produzione tradizionalmente tedesca. Dense, corpose, dal deciso sapore di malto. Quando sono ancora più forti diventano doppelbock. Le bock di solito sono chiare, le doppelbock ambrate o scure. Tedesca a bassa fermentazione. spesso ambrata. con un carattere maltato e un'alcolicità compresa tra il 6% e il 7,5% ". La variante "maibock" veniva tradizionalmente prodotta per le feste primaverili.
Brown ale
Inglese di colore ambrato intenso e dal gusto leggermente dolce. Tipicamente tra il 3,5% e il 4,5% di alcool.
Cream ale
Definizione per una birra americana chiara, non particolarmente strutturata nel corpo e nel gusto. Spesso viene tagliata con una "lager" chiara. Vicina al 5% di alcool.
Doppelbock
Birra della Germania meridionale a bassa fermentazione e alto contenuto alcolico. di solito oltre il 7%. Di colore ambrato carico o quasi scoru1 tradizionalmente veniva prodotta in primavera. Spesso il nome del prodotto contiene il suffisso "ator", se messa in vendita durante la quaresima.
Doppio malto
Secondo la legge italiana è una birra con una gradazione Plato non inferiore a 14,5° e con circa 6,5% di alcool sul volume.
Dortmunder
Il nome deriva dalla vocazione commerciale della città tedesca di Dortmund in Renania, che fu uno dei primi centri di esportazione della birra. In questa città nasce infatti il tipo di birra denominata Export. Bassa fermentazione. Gusto rotondo, non troppo amaro, sapore di malto. Gradazione alcolica attorno ai 4 gradi e mezzo.
Draught
In inglese significa letteralmente "alla spina". Le lattine e le bottiglie che riportano questa indicazione contengono un dispositivo meccanico atto a simulare l'effetto di spillatura della Birra.
Dubbel/Double
Belga rifermentata in bottiglia dal colore ambrato e carattere maltato. Spesso è una birra "trappista" o di "abbazia".

Eisbock
Antica birra tedesca ottenuta dalla sottrazione di una parte della componente acquosa attraverso il congelamento del fusto. Il risultato è una birra corposa, alcolica e dal gusto deciso.
Esotiche
Non è una vera tipologia birraria ma semplicemente una denominazione di fantasia per identificare quelle birre che ci portano atmosfere di Paesi lontani e affascinanti. Quasi tutte praticamente rientrano nella grande famiglia delle birre lager ma in qualche caso hanno caratteristiche particolari. Le birre latino-americane, per esempio, sono di colore molto chiaro, sapore delicato, grande bevibilità.
Export
Spesso è sinonimo di "dortmunder", altrimenti può identificare una qualsiasi birra nata per l'esportazione. Altre volte dovrebbe indicate un prodotto di qualità superiore.
Faro
"Lambic" cui viene aggiunto zucchero durante la fermentazione. E una birra con circa il 5% di alcool,, spesso ambrata, in cui la dolcezza dello zucchero si contrappone all'acidità della fermentazione spontanea.
Gueuze
Birra belga a fermentazione spontanea, ricavata dalla miscelazione di vari tipi di birre Lambic (vedi). Può essere aromatizzata, per macerazione, con vari tipi di frutta. Tra le più note, la Frambozen (lampone), ma si producono anche birre alla pesca, al ribes, al mirtillo, alla banana.
Ice beer
Moderna versione delle "eisbock", congelata durante la maturazione. Di colore chiaro e buon tenore alcolico.
Imperial stout
"Stout" nata nel Regno Unito per essere esportata nella Russia imperiale. Concepita per essere conservata a lungo è una birra più alcolica di una "Stout" tradizionale, arrivando facilmente all'8%.
India pale ale/Ipa
Inglese destinata tradizionalmente all'esportazione in India. Versione più alcolica e luppolata della semplice "pale ale", supera facilmente il 5% di alcool.
Kellerbier
Bavarese a bassa fermentazione non filtrata. È tipicamente poco frizzante, con un buon tenore di luppolo.
Kölsch
Birra tipica della città tedesca di Colonia, ad alta fermentazione, dorata, delicata e decisamente secca. Si beve in un apposito bicchiere cilindrico. Di difficile reperimento nel nostro Paese. E una birra chiara, piuttosto acida con un alcolicità vicina al 4,5%.
Krieken (Lambic)
Una lambic che ha subito un'ulteriore fermentazione grazie all'aggiunta di ciliege intere. Ideale come aperitivo. Si serve leggermente fredda in un bicchiere flûte.
Lager
Ogni birra prodotta a bassa fermentazione è genericamente chiamata lager. Si sarebbe tentati di dire che è la birra comune, anche se non c'è niente di comune in questo stile birrario che è il più diffuso a livello mondiale. Di colore oro pallido, mediamente amara. Il nome deriva dal tedesco lager che indica i magazzini, le cantine in cui viene messa a maturare.
Lambic
Birra a fermentazione spontanea, che raccoglie cioè il lievito dell'aria e lascia fermentare liberamente il mosto. Viene prodotta con una buona percentuale di malto di frumento, ma dato che il lievito presente nell'aria non è mai lo stesso né della stessa quantità, si miscelano vari tipi di lambic per dare origine alla birra Gueuze. Birra belga di frumento e matto d'orzo a fermentazione spontanea rifermentata in bottiglia oppure in botti di quercia o rovere. ha un sapore fresco e piuttosto acido, un colore chiaro opalescente e un'alcolicità vicina al 4%. Talvolta, con lo scopo di addolcirne il carattere, alla "Lambic" viene aggiunta della frutta durante la fermentazione. La birra prende il nome di "framboise" se si tratta di lamponi, "kriek" dì ciliegie, "pèche" di pesche, cassis" di ribes neri.
Light Beer/ Leicht bier/ Birra leggera
Definizione per una birra dal basso contenuto calorico e soprattutto alcolico. Spesso è una birra poco strutturata anche negli aromi e nel gusto.
Malt liquor
Non tutte le birre americane sono leggere e poco alcoliche. Alcune, ma sono poche, sono di gradazione alcolica elevata e vengono chiamate appunto Malt liquor (liquore di malto). Sono in pratica le doppio malto Usa. Di colore chiaro con oltre il 5% di alcol.
Märzen
Tipica birra tedesca di Monaco di Baviera. Viene prodotta in marzo per essere consumata durante l'Oktoberfest, dove viene bevuta in grandi quantità, esclusivamente in boccali (mass) da un litro. Bavarese prodotta nel mese di marzo per essere consumata in autunno. È tipicamente una chiara dorata di buon corpo e dal carattere maltato, con un contenuto alcolico attorno al 5%. Märzen in Austria è l'equivalente della helles bier o voll-bier bavarese (Münchner bionda).
Mild ale
Tra le birre più diffuse in Inghilterra. È di colore ambrato abbastanza carico, si differenzia dalla bitter per essere più maltata e meno luppolata. E anche leggermente meno alcolica, con circa il 3,5%.
Münchner
Birre tipiche di Monaco di Baviera, di bassa fermentazione, di colore generalmente scuro e con evidente sapore di malto. E stato codificato come uno dei primi stili di birra a bassa fermentazione. E scura con un carattere maltato e un'alcolicità attorno al 4,5%.
Old ale
Scura inglese ad alta fermentazione, tradizionalmente invecchiata un paio di anni prima del consumo. Ha il 6% di alcol, buon corpo e gusto strutturato.
Pale ale
"Ale" inglese di colore ambrato con riflessi ramati o aranciati. Possiede un discreto corpo e un carattere luppolato e circa il 4% di alcool. Tipica dì Burtonon-Trent.
Pils / pilsner
Questa tipologia trae il nome da Pilsen, la città ceca in cui è nata e nella quale viene tuttora prodotta la famosa Pilsner Urquell. Molto apprezzato questo stile birrario si è diffuso in diversi Paesi dove vengono prodotte birre denominate pils o pilsener. Le pils sono birre a bassa fermentazione, di color oro pallido e in genere molto luppolate, il che conferisce un tocco di amarognolo in più (le pils bavaresi, al contrario, sono meno amare), gusto secco, pulito. Schiuma abbondante con perlage finissimo. Si bevono in calici flute.
Porter
Originaria di Londra, simile alla "stout" ma poco meno scura e amara.
Premium
In teoria dovrebbe identificare una "lager" chiara di qualità superiore. Nella realtà è un termine spesso abusato che può non significare nulla.
Roggenbier
Birra ambrata fatta con lo stesso metodo della Weizen, ma con la segale al posto del grano. Prodotta solo dalla Thurn und Taxis e da un'altra birreria. 5.5% vol (Gianluca D'Alia)
Rauchbier
Tipica della zona di Bamberg, in Franconia (Germania) è ottenuta da malto da cui germinazione è stata interrotta mediante l'affumicatura con legno di faggio invecchiato. Il sapore di affumicato si trasmette fino al prodotto finito. E' una specialità di difficile reperimento nel nostro Paese. Scura di colore, con circa il 5% di alcool.
Saison
Stile ad alta fermentazione tipico del Belgio di lingua francese. E una birra fresca e ben luppolata con un'alcolicità tra il 6% e l'8%. Spesso rifermentata in bottiglia, può essere indicata per l'invecchiamento.
Schwambìer
"Lager" tedesca di colore scuro, dal gusto deciso di malto. Possiede un'alcolicità che si avvicina al 5%.
Scotch ale
"Ale" proveniente dalla Scozia, di colore ambrato intenso con riflessi mogano. Indipendentemente dal contenuto alcolico, che può andare dal 3% al 10% è caratterizzata da evidenti note maltate. (è la mia preferita....)
Stout
E' la famosa birra nazionale irlandese, scurissima, con una schiuma abbondante e cremosa. Viene prodotta con orzo torrefatto e con l'aggiunta di caramello. Questo stile birrario è molto apprezzato anche in Gran Bretagna ma non mancano birre stout provenienti anche da altri Paesi. Una stout molto forte e famosa è la Russian Stout originariamente prodotta a Londra nell'Ottocento, per essere esportata a Pietroburgo; tuttora in produzione viene esportata in vari Paesi, incluso il nostro. La schiuma cremosa color nocciola, colore scuro impenetrabile e gusto amaro. Le inglesi sono più dolci ("sweat stout", "milk stout" o "cream stout").
Strong ale
Stile diffuso in Belgio e Gran Bretagna. Birra ambrata e aromatica. Supera facilmente il 6% di alcool.
Strong lager
Birra a bassa fermentazione e alto tenore alcolico, tipicamente chiara. Non sempre alla quantità di alcool corrisponde una complessa struttura gustativa.
Trappiste
Le birre trappiste sono molto apprezzate in quanto vengono tuttora prodotte dai monaci trappisti in sei abbazie (cinque situate in Belgio e una in Olanda). fermentazione, rifermentate in bottiglia. Gradazione robusta (da 6 a 9° alcol). Di colore che varia dall'oro carico all'ambrato allo scuro. Schiuma ricca. Gusto pieno. Si bevono in grandi bicchieri balloon per meglio apprezzarne gli aromi. Può essere chiara ambrata o scura e contenere dal 6%) al 12% di alcol Alcune possono invecchiare.

Tripel/Triple
"Ale" belga di colore chiaro rifermentata in bottiglia Rispetto alla "dubbel" è più alcolica speziata e meno maltata.
Vienna
Birra a bassa fermentazione, di colore ambrato scarico con buon tasso alcolico e gusto delicato.
Weizen (Weisse)
Birre di frumento tedesche, leggermente asprigne e dorate di una abbondantissima schiuma. Molto dissetanti e rinfrescanti, sono anche assai digestive. Altra caratteristica è il lievito che rimane in sospensione dando alla birra un gusto particolare e un aspetto opaco. Sono prodotte in tre tipi: hefeweizen (chiare con lievito), dunkelweizen (scure, con lievito) e kristallklar (chiare, ma senza lievito che viene filtrato).
Weizen bock
Birra di frumento tedesca ambrato scuro Unisce in sé l'acidità di una con la rotondità e la potenza di una "bock".
Wheat bear
Birra di frumento americana. Meno fruttata di quelle europee ma ugualmente fresca e frizzante.


La storia
Due sono le qualità che hanno da sempre contraddistinto la storia della birra nei secoli: la sua presenza pressoché universale e la sua popolarità in ogni ceto sociale. Nel primo caso si può infatti affermare che laddove ci sia stata la coltivazione dei cereali, si è verificata anche la produzione della birra.

La seconda asserzione invece è avallata da innumerevoli testimonianze storiche. Non si sa con esattezza dove sia nata la prima birra: c'è chi parla di Mesopotamia, chi di Egitto, chi di isole Orcadi, chi addirittura di Malta. Ma noi crediamo che ciò non sia importante, poiché è assai verosimile che il fenomeno della fermentazione sia stato scoperto casualmente in diverse parti del mondo più o meno nello stesso periodo. Differenti però sono stati i modi di sviluppare la bevanda. La Mesopotamia per esempio è stata la terra che per prima ha visto sorgere la professione del birraio, cosa che in altre società meno organizzate sarebbe stata impossibile. Il prodotto delle sue fatiche rappresentava una quota della retribuzione dei lavoratori, che dunque veniva corrisposta in birra. Ma, si badi bene, non un birra, ma svariate tipologie, poiché già in quel periodo si distinguevano birre scure, chiare, rosse, forti, dolci e aromatiche. Inoltre si usavano nomi diversi per indicare birre prodotte con cereali differenti: le sikaru erano d'orzo, le Kurunnu di spelta.
Pare che fossero addirittura venti le qualità di birra disponibili sul mercato di Babilonia, la più ricca città dell'antica Mesopotamia, anche se quelle più diffuse erano quattro: bi-se-bar, una comune birra d'orzo, bi-gig, una birra scura normale, bi-gig-dug-ga, una birra scura di elevata qualità, e bi-kal, il prodotto migliore. La birra aveva anche un significato religioso e rituale, infatti veniva bevuta durante i funerali per celebrare le virtù del defunto e veniva offerta alla divinità per garantire un tranquillo riposo al trapassato.
Si dice che la dea della vita Ishtar, divinità di primissimo piano nel pantheon assiro-babilonese, traesse la sua potenza dalla birra, che nemmeno il dio del fuoco Nusku poteva estinguere.
Analoga importanza aveva la birra in Antico Egitto. Fin dall'infanzia si abituavano i sudditi dei faraoni a bere questa bevanda, considerata anche alimento e medicina. I bambini inoltre facevano sacrifici di birra, frutta e focacce al dio della scrittura Thout, mentre bevevano una ciotola di birra, dopo essersene bagnati gli occhi i la bocca che venivano tenuti chiusi.
Anche le donne incinte ricorrevano alla birra per offrire libagioni alla dea Ernenunet, che avrebbe provvisto di abbondante latte le nutrici. Interessante anche l'uso di somministrare ai bambini birra a bassa gradazione o diluita con acqua e miele durante lo svezzamento, quando le madri non avevano latte.
Gli Egizi usavano, come nel caso dei Babilonesi, la birra per scopi propiziatori e sono innumerevoli le divinità che ebbero a che fare con questa bevanda. In una cosa erano diversi Egizi e Babilonesi: per i primi la birra era una vera e propria industria statale, per i secondi invece si trattava di un semplice prodotto artigianale. I faraoni stessi possedevano fabbriche di birra e in un'iscrizione funebre su una tomba reale è stata trovata questa testimonianza: "Io ero uno che produceva orzo". E dall'orzo alla birra il passo era (e continua a essere) assai breve.
Di birra si parla anche nei sacri libri del popolo ebraico, come il biblico Deteronomio e il Talmud e nella festa degli Azzimi, che ricorda la fuga dall'Egitto, si mangia per sette giorni il pane senza lievito e si beveva birra. Inoltre questa bevanda è regina durante l'annuale festività del Purim, considerata la più popolare dagli ebrei.
La Grecia, Paese enonico per eccellenza, non produceva birra, però ne consumava parecchia, soprattutto in occasione delle feste in onore di Demetra, dea delle messi, tra le quali ovviamente non poteva mancare l'orzo. Si trattava di prodotti d'importazione, per lo più fenici, ma anche durante lo svolgimento dei giochi olimpici non era ammesso il vino, per cui la bevanda alcolica per eccellenza di questa prima grande manifestazione sportiva, era la birra.
Etruschi e Romani facevano anch'essi parte del "club del vino", ma alcuni ragguardevoli personaggi della loro società diventarono accaniti sostenitori della birra, come ad esempio Agricola, governatore della Britannia, che una volta tornato a Roma nell'83 dopo Cristo si portò tre mastrobirrai da Glevum (l'odierna Gloucester) e aprì il primo pub della nostra Penisola.
Tra i cosiddetti popoli barbarici si trovavano i più strenui tracannatori di birra, i Germani e i Celti. I primi organizzavano feste che in realtà erano scuse per sbornie colossali, come ad esempio la Wappentanz, una crudele danza delle spade dedicata al bellicoso dio Thyr, al termine della quale i sopravvissuti si dedicavano ad abbondanti libagioni.
I Celti si erano stanziati principalmente in Gallia e in Britannia, ma la loro straordinaria civiltà, bagnata di birra fin dai primordi, venne sviluppata principalmente nella verde Irlanda. Infatti la nascita del popolo irlandese è dovuta, seconda una birrosa leggenda, ai Fomoriani, creature mostruose dal becco aguzzo e dalle gambe umanoidi, che avevano la potenza e l'immortalità grazie al segreto della fabbricazione della birra, che fu loro sottratto dall'eroe di Mag Meld, una specie di Promoteo irlandese.
Il Medioevo vide la birra protagonista soprattutto per merito dei monasteri, che operarono un decisivo salto di qualità nella produzione della bevanda introducendo anche alcuni nuovi ingredienti, tra i quali il luppolo. A questo proposito va detto che in tempi più remoti per l'aromatizzazione della birra si usavano svariati tipi di erbe, spezie o bacche, oppure si ricorreva addirittura a misture vegetali, la più famosa delle quali era il gruit.
Anche le suore avevano tra i loro compiti manuali quello di fabbricare la birra, che in parte destinavano al consumo dei malati e dei pellegrini. Per rimanere in tema, è stato tramandato che papa Gregorio Magno abbia girato ai poveri una donazione in birra della regina longobarda Teodolinda.
Anche in Gran Bretagna la birra, chiamata ale, venne usata nelle feste come Church-Ale, prodotta dalle massaie inglesi e messa a disposizione delle feste parrocchiali, dove veniva venduta e il ricavato era un contributo per la manutenzione di chiese e conventi britannici. In Inghilterra la birra diventò bevanda nazionale in quanto l'acqua usata per la sua produzione veniva bollita e sterilizzata. Ciò rappresentava un garanzia in un periodo in cui l'acqua era spesso infetta. Soltanto dopo il Rinascimento questa piaga cessò. Una curiosità: in Inghilterra il luppolo venne introdotto assai tardi nella birra nazionale, che continuò a chiamarsi ale, in contrapposizione dei prodotti continentali luppolati, detti beer.
Nei tre secoli dopo la scoperta dell'America in tutta l'Europa andarono sviluppandosi numerose tipologie birrarie, tutte basate sull'unico sistema di fermentazione allora conosciuto, la alta.
Verso la metà del secolo scorso però furono eseguiti studi specifici sul lievito e il loro risultato fu la produzione della birra a bassa fermentazione, che oggi è di gran lunga il più praticato nel mondo. Esso si giova di temperature più basse per fermentare, quindi usa impianti produttivi tecnologicamente assai più avanzati che in passato. Infine viene usato un lievito diverso rispetto alle birre tradizionali, il cosiddetto Saccharomyces carlsbergensis, che prende il nome dalla birreria danese che per prima ne isolò il ceppo.
Oggi, nonostante le birre a bassa fermentazione siano sicuramente le più bevute, va notato che esiste anche una controtendenza di nicchie di mercato che ricercano le birre tradizionali, le cui ricette si perdono nella notte dei tempi.

LA BIRRA IN ITALIA


"Tipico barman" italiano al lavoro (TNT pub 2004)


Dato l’exursus storico della birra nei secoli in mezzo mondo, mi è sembrato giusto toccare anche la vita della birra nella nostra nazione. La birra è sempre più una bevanda di tendenza tra gli italiani. Il suo consumo nell’ultimo anno è salito a 31 litri pro capite, e soprattutto, assoluta novità, è diventata la bevanda alcolica più bevuta nei pasti fuori casa durante la settimana. A dirlo è la Società di Ricerca Makno, che ogni anno, per conto di Assobirra, monitora gli atteggiamenti dei nostri connazionali verso questa popolare bevanda.



Il TNT PUB aperto a Levanto dal sottoscritto...

Se la birra oggi è così di moda, va detto che non sempre è stato così: il percorso della birra in Italia è un’avventura complessa e travagliata, fatta di momenti esaltanti e di altri più negativi.
I primi consumatori di birra “italici” furono gli etruschi, che erano soliti pasteggiare con una bevanda chiamata pevakh, fatta inizialmente con segale e farro, poi con frumento e miele. Anche i Romani, influenzati dalle popolazioni del nord Europa, ne apprezzarono il sapore. Tra i suoi estimatori più famosi ricordiamo Nerone e Agricola, il governatore della Britannia. Ma nei secoli, di aficionados importanti la birra ne ha avuti molti: la regina longobarda Teodolinda, Papa Clemente V, il condottiero Federico Barbarossa e il principe Ludovico il Moro.

Il medioevo in Italia:
Per tutto il medioevo e sino all’inizio dell’era moderna propriamente detta, in Italia si era prodotta birra esclusivamante con metodi artigianali, per il raro consumo dei pochi estimatori. Si trattava di produzioni discontinue, legate a fattori strettamente temporanei e locali. La birra veniva vissuta, dal grande pubblico, come una bevanda tipica delle genti del nord, da sempre invasori dell’italico suolo e, come tali, da sempre nemici. Quella loro strana bibita, che nulla aveva a che vedere con il più noto ed apprezzato vino, non poteva quindi non essere guardata come minimo con sospetto. La birra si importava per lo più dall’Austria, retaggio della dominazione borbonica che influenza soprattutto il nord, ed era legata ad un uso elitario, mentre i consumi popolari confluivano essenzialmente sul vino, anche per ovvi motivi di minor costo e di più facile reperimento.
Dobbiamo arrivare alla metà del secolo scorso perché finalmente anche in Italia sorgano le prime vere e proprie fabbriche, organizzate con moderni criteri di produzione industriale. Sono ovviamente opera, per lo più, di intraprendenti industriali d’oltralpe, i quali vedono in Italia prospettive commerciali di sicuro interesse, (i vari Wuhrer, Dreher, Paskowski, Metzger, Caratch, Von Wunster, ecc.) ai quali presto fanno seguito anche commercianti italiani, soprattutto fabbricanti di ghiaccio che vedono nella birra il naturale complemento della loro attività, che si esplicava esclusivamente in estate.
In pochi decenni assistiamo ad un continuo frenetico fiorire di fabbriche di ogni tipo e dimensione, sino ad arrivare, nel 1890, a ben 140 unità produttive.
Nel breve volgere di un ventennio, diminuiscono di nove unità il numero delle fabbriche, ma molte di queste crescono di dimensione e capacità imprenditoriale, in rapporto alla sempre maggiore espansione dei consumi, grazie anche al più accessibile costo della bevanda che può così raggiungere le fasce popolari. La produzione quadruplica e, nel 1910, arriva alla considerevole cifra di ben 598.315 hl. Anche le importazioni salgono, seppure non nella stessa percentuale, toccando 85.934 hl, pari al 13% del consumo nazionale.


La 1° guerra mondiale:
Giungiamo così alla Grande Guerra, e, per tutto il periodo bellico, cessa pressoché la produzione della bionda bevanda, essenzialmente per il fatto che la maggior parte del malto occorrente per la fabbricazione doveva essere reperito all’estero, essendo ancora insufficiente, oltre che di scarsa qualità, il malto di provenienza nazionale.
Dopo le difficoltà dovute allo scoppio della prima guerra mondiale, che comunque porterà in dote all’Italia le città di Trento e Trieste con le loro 8 fabbriche avviate dagli austriaci tra le quali la Dreher di Trieste e la Forst di Merano, gli anni 20 rappresentano l’età dell’oro per la birra in Italia. In questo periodo si affermano infatti aziende che presto diventeranno le grandi realtà industriali del settore (Poretti, Pedavena, Moretti, Wührer, Menabrea, Peroni, Raffo, Ichnusa), la produzione nel 1925 è di 1,56 milioni di ettolitri di birra e anche il consumo pro-capite raggiunge quote interessanti (3,5 l.).
Nel 1920 le fabbriche italiane sono soltanto 58, ma la produzione arriva alla ragguardevole cifra di 1.157.024 hl, ai quali si aggiungono soltanto alcune centinaia di ettolitri di birra importata. Crescono e si consolidano quelle aziende che, nel volgere di alcuni decenni, diventeranno le grandi realtà industriali del settore, come la Wuhrer di Brescia, la Dreher di Trieste, la Paskowski di Firenze e Roma, le Birrerie Meridionali di Napoli di proprietà dalla famiglia Peroni, la Pedavena di Feltre, la Poretti di Iduno Olona, la Moretti di Udine, la Wunster di Bergamo, alle quali fanno corollario una pletora di medio-piccole birrerie, come la Menabrea di Biella, la Icnusa di Cagliari, la Cagnacci di Ancona, la Birra d’Abruzzo di Castel di Sangro, la Dell’Orso & Sanvico di Perugia, la S.Giusto di Macerata, la Ghione & Pogliani di Borgomanero, la Bosio & Caratsch di Torino, la F.lli Di Giacomo di Livorno, la Brennero di Milano, la Raffo di Taranto, la Forst di Merano, e poi ancora la Leone, la Sempione, la Cervisia, la Metzeger, ecc.
A questo punto si scatena la reazione dei vinai che, di quel passo, temono di dover affrontare a breve una crisi del loro settore. Riescono quindi a far approvare dal Governo leggi protezionistiche a tutela dei loro interessi. Così, nel 1927, viene varata la legge Marescalchi la quale, con l’apparente scopo di favorire l’agricoltura, ma con la recondita speranza di peggiorare la qualità della birra, impone ai birrai l’immissione di un 15% di riso. Le tecnologie dell’epoca non consentivano infatti di sfruttare appieno tutte le caratteristiche positive del riso, e la qualità, anche se in minima parte, ne risentiva. Contemporaneamente si inaspriscono le tasse con l’aggiunta di una imposta straordinaria di ben 40 lire per hl. Ma non basta. La legge prevedeva inoltre una apposita licenza di vendita di “bassa gradazione” e ne limita lo smercio al dettaglio esclusivamente nei bar, trattorie e birrerie.  A rincarare la dose, in molti Comuni il “dazio” viene regolato con l’applicazione di fascette sul collo di ciascuna bottiglia, con immaginabili intralci e perdite di tempo che fanno cadere l’interesse dei commercianti verso il prodotto.
L’effetto è immediato, ed i consumi scendono vorticosamente, non tanto per il livello qualitativo, che rimane comunque accettabile, quanto per l’inevitabile levitazione dei prezzi che pongono il prodotto fuori della portata delle masse popolari.

Le prime pubblicità:
Proprio a causa della popolarità raggiunta in quel periodo tra gli italiani, le tassazioni sulla birra si fanno sempre più pesanti, tanto da costringere le aziende ad alzare il prezzo del loro prodotto. Negli anni ’30 si assiste così ad un netto calo dei consumi e della produzione, che porta i birrai italiani a realizzare la prima campagna collettiva sulla birra “Chi beve birra campa cent’anni”.
Nel 1942 nasce il baffo , tutt’oggi icona della pubblicità nostrana, mentre, terminato il secondo conflitto bellico, i consumi tornano a crescere e, dopo la conversione corporativa del ventennio, viene rifondata un’associazione di categoria. Ma sono soprattutto gli anni in cui un nuovo apparecchio entra nelle case degli italiani: la televisione. I produttori ne colgono subito la grande potenzialità e così carosello viene “inondato” di fiumi di birra grazie a testimonial d’eccezione come Fred Buscaglione, Mina e Ugo Tognazzi.
Sino al 1959 i consumi oscillano con alterne vicende, dovute esclusivamente all’andamento climatico della stagione estiva, da 1.500.000 a 2.000.000 di hl, con l’importazione che non supera il 2% dei consumi totali ed il procapite rimane contenuto fra i 3 ed i 4 litri anno. Va detto comunque che sino a quegli anni la birra veniva bevuta in un arco di tempo che andava da marzo a settembre; rientrava, nella mentalità corrente, fra le comuni bevande dissetanti, come le bibite gassate, e come tale veniva consumata esclusivamente al banco. Era addirittura opinione popolare che la preparazione avvenisse con chissà quali misteriosi sciroppi, né più né meno come una aranciata od una gassosa. Nei mesi invernali quindi le fabbriche chiudevano, dedicandosi a lavori di manutenzione e riordino delle strutture.
Dal 1960 sino al 1975 la birra continua la sua avanzata trionfante sino ad arrivare ad otto milioni di ettolitri di produzione, con oltre 570.000 hl di importazione, ed il procapite si attesta intorno ai sedici litri. Finalmente i consumatori hanno compreso lo spirito della bevanda, nobilitandola nella sua giusta dimensione. Gli industriali tirano un sospiro di sollievo: euforicamente ottimisti, già fanno previsioni a lunga scadenza ritenendo che, di quel passo, negli anni novanta sarà possibile superare i 40 litri, posizionandosi su soddisfacenti medie europee, e c’è già chi pensa a potenziare le proprie strutture produttive.
Ma la congiuntura è alle porte, e  nel 1975, colpisce inevitabilmente anche il settore birrario nazionale, mentre, stranamente, l’importazione cresce del 40%.
Come se non bastasse, il Governo decide di aumentare del 50% l’imposta di fabbricazione, con un consistente balzo in avanti dei prezzi al pubblico, la qual cosa, in una economia di recessione, rallenta considerevolmente la ripresa, che sarà lenta e faticosa, ed occorreranno altri cinque anno per risalire ai sedici litri di consumo procapite.
Dagli anni ottanta in poi e sino ad oggi i consumi crescono costantemente di anno in anno.
Siamo ancora lontani dai consumi di birra delle altre nazioni europee; con i nostri 31 litri siamo all’ultimo posto della scala, preceduti dalla Francia (altro paese a forte vocazione vitivinicola) , dalla Grecia e dalla Spagna .Senza considerare Repubblica Ceca e Germania con un consumo procapite rispettivamente di 165 litri e 145 litri all’anno 
:-)
Ma il futuro fa ben sperare! Sempre nuovi consumatori si accostano ogni giorno a questa splendida antichissima bevanda, in virtù delle sue caratteristiche di freschezza, bevibilità e digeribilità.

Salute a tutti!!!

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