DINO SEGRE, IN ARTE PITIGRILLI, FU UNO SCRITTORE E GIORNALISTA DEL SECOLO SCORSO. NATO A TORINO, POCO SIMPATIZZANTE, DICIAMO COSÌ, DEL REGIME FASCISTA E DI BENITO MUSSOLINI, EBBE UNA VITA AVVENTUROSA CHE LO PORTÒ ANCHE IN ARGENTINA.
CONOSCIAMOLO MEGLIO...
Le "signorine" secondo Pitigrilli
Pseudonimo di Dino Segre, Pitigrilli nacque a Torino il 5 maggio del 1893; figlio dell’ebreo David Segre, un ex ufficiale dell’esercito, e di Lucia Ellena, appartenente a una antica famiglia di contadini cattolici. All’insaputa del padre, fu battezzato nel 1897 da Lucia: Dino, un giorno, le chiese a quale animale appartenesse la pelliccia del cappotto che stava indossando, e lei rispose: «E’ di petit gris, di piccolo scoiattolo».
Quel nome gli piacque e cominciò a firmare i suoi versi con l’italianizzazione di petit gris; Pitigrilli. Indeciso se percorrere la strada della pittura o quella della scrittura, scelse la seconda.
Ventenne, si innamorò della scrittrice emancipata Amalia guglielminetti, che gli schiuse le porte del giornalismo e che corrisponderà al suo amore solo alla fine del 1918 (quando lui era venticinquenne). Dal 1914, all’estate del 1915, scrisse per la rivista satirica «Numero», alla quale collaborava fra gli altri anche il vignettista Dudovich.
Pubblicò a metà del 1915 il suo primo volumetto in versi, Le vicende guerresche di Purillo Purilli bocciato in storia; libro promosso dalla redazione di «Numero 97» (una edizione monografica). Si laureò in Giurisprudenza nel 1916 con 77 su 110. Riformato per vizio cardiaco, non poté arruolarsi come volontario e si iscrisse al terzo anno della facoltà di Filosofia solo per seguire meglio una studentessa di cui era rimasto affascinato.
Nel giugno del 1917 scriverà nella rubrica Il Mondo Torinese, il suo primo articolo di cronaca mondana, nella rivista settimanale «Il Mondo»: abbandonati gli iniziali toni apologetici, raccolse fin da subito un ampio consenso fra i lettori che ritrovavano in lui (nei suoi toni caustici e critici, nel suo nonsense, nell’irragionevole e negli sberleffi) la loro stessa posizione anticonformista e spregiudicata.
A metà ottobre del 1918, Piti si recò a Roma con Amalia, dove il giornalista Tullio Giordana, direttore del liberal-democratico «L’Epoca», lo assumerà per il suo giornale, con l’intento di alleggerire il quotidiano facendogli scrivere articoli spumeggianti, per far dimenticare ai lettori per qualche istante le sofferenze del conflitto mondiale.
Per burlarsi dei nazionalisti istriani, che in quegli anni si schieravano con i fiumani manifestanti per l’annessione della città all’Italia, scrisse un articolo (Fiume, città asiatica) che provocò scandalo e irritazione. «L’Epoca» fu sequestrato, Piti dovette rifugiarsi in Svizzera e da lì scrisse ancora per la testata - con la precauzione di Giordana che firmerà i suoi articoli Dino Segre.
Il 2 febbraio del 1920 comparve sul «Mondo» il suo primo articolo da Parigi, dove era stato inviato dal Giordana come corrispondente estero. Le novelle Purificazione, Whisky e Soda, Il cappello sul letto e Balbuzie, ottennero molto successo, tanto che il periodico andò esaurito in pochi giorni. Lo stile era cinico, spregiudicato, sfrontato, infarcito di paradossi, calembour e impudenze. Era pronto al grande salto.
Nello stesso anno, su pressante richiesta del Matarelli, che voleva sfruttare il momento propizio dello scrittore torinese, pubblicò per Sonzogno la raccolta di undici novelle Mammiferi di lusso (1920) - «atto di uno scrittore coraggioso che strappa alla donna la maschera bugiarda e all’uomo la benda che gl’impedisce di vedere chiaramente nell’animalità i suoi istinti» - e la serie di sette racconti, La cintura di castità (1921).
Quella pubblicazione, dopo una telefonata al Giordana, gli consentì di abbandonare almeno provvisoriamente l’odiato mestiere di giornalista. Si recò quindi a Torino da dove poi fu costretto a fuggire per sbollentare gli animi, dopo un principio di rissa con un gruppo risentito di reduci dall’impresa fiumana. Rifugiatosi a Rapallo, si dedicò alla scrittura di Cocaina (1921), il suo primo romanzo: scritto «nel volgere di due mesi e dieci giorni», racconta una storia d’amore e droga con un campionario di motti e battute nel miglior stile graffiante.
Quel libro generò in Italia una grande polemica: accusato dal quotidiano «Il Popolo d’Italia» (diretto da Benito Mussolini) e difeso dalla prestigiosa rivista «Ordine Nuovo» (fondata da Antonio Gramsci), Piti si vide al centro del nascente dibattito sulla problematica questione della droga che, proprio in quegli anni, era diventata un rimedio frequente alle difficoltà esistenziali ed economiche del dopoguerra.
Negli stessi mesi iniziarono i litigi che portarono Amalia ad incontrarlo meno frequentemente. Piti infatti era geloso, nonostante da parte sua non mancassero le relazioni con altre donne; inizialmente a tormentare la coppia fu la stessa gelosia.
Dopo diverse vicissitudini giuridiche, nel 1923 cominciò a scrivere La vergine a 18 carati (1924), il suo secondo romanzo, dall’epilogo tragico e dai temi spiccatamente autobiografici, che presenterà un campionario eccellente di brillanti aforismi, velenose definizioni, battute di spirito e paradossi. L’opera è introvabile. All’epoca Pitigrilli, che diventò lo scrittore più letto in Italia, tentò con Amalia di affrontare anche il genere della commedia teatrale. Strada che tuttavia interruppe bruscamente riavvicinandosi a quell’odiato giornalismo che ormai dal ’22, con Mussolini agli esordi di presidente del Consiglio dei ministri, era profondamente mutato.
All’indomani dell’uscita de La vergine, si impegnò nel realizzare un progetto che aveva in mente da tempo: una rivista che (lo chiarirà subito) non avrà intenti morali; che dovrà essere innovativa a livello grafico e che dovrà contenere «le novelle dei massimi scrittori italiani». Nel primo numero del quindicinale «Le Grandi firme» (1 luglio 1924), mancherà la firma della Guglielminetti, che non verrà successivamente chiamata a partecipare alla redazione; Amalia troncò definitivamente il rapporto con il suo efebo biondo alla fine dell’agosto dello stesso anno. Ad ottobre la rivista lancerà una competizione per la pubblicazione dei racconti alla quale parteciperanno le migliori firme disponibili; fra gli altri: Massimo Bontempelli, Corrado Alvaro, Achille Campanile, Ferdinando Russo, Roberto Bracco, Luigi Pirandello, Grazia Deledda e Alfredo Panzini. Nonostante il successo editoriale, non mancheranno gli scontri con il versante politico, con i benpensanti, i moralisti e Alessandro Giuliani (caporedattore del «Popolo d’Italia» guidato da Arnaldo Mussolini dall’1 novembre ‘22), che definirà la pubblicazione «pozzo nero» e «letame». Calmati i toni dello scontro dialettico, Piti varerà «Il Dramma» (1 dicembre 1925), rivista mensile di commedie di gran successo.
«Io derido i moralisti in quanto insistono nel pregiudizio, nella menzogna convenzionale, nell’ipocrisia».
L’enorme successo editoriale delle due pubblicazioni, e l’assoluzione alla condanna per oltraggio al pudore, spingeranno Pitigrilli a pubblicare una terza rivista; affidata la direzione ad Anselmo Jona, l’1 luglio 1926 uscì il primo numero di «La Grandi novelle», che conteneva un feroce attacco alla Guglielminetti, la quale rispose all’attacco un mese dopo dal suo neonato quindicinale «Le Seduzioni».
Il litigio non si placò e dopo colpi bassi, per deplorevoli fatti e per diverse spiacevoli vicissitudini redazionali, alle 9.30 dell’11 gennaio 1928, Pitigrilli venne arrestato. Le accuse furono: «offese alla persona di Mussolini; attività politica contraria alle istituzioni e al regime; immoralità privata e diffusa a mezzo di pubblicazioni.» Il 23 gennaio dello stesso anno, un telegramma al ministero renderà noto che la commissione «riconosciuta all’unanimità l’innocenza dell’accusato», ha dovuto chiedere al procuratore del re «il fermo del delatore Jona e la denuncia di Amalia Guglielminetti per falso provato». La scarcerazione immediata di Pitigrilli avvenne il 24 gennaio 1928 alle ore 11.
Dopo cinque anni di silenzio venne pubblicato quello che per la critica sarà il miglior romanzo di Pitigrilli; L’esperimento di Pott (agosto 1929). Nel frattempo «Grandi firme», com’era accaduto per «La Voce» di Giuseppe Prezzolini, ma sicuramente con minore autorevolezza, diventò una sorta di quadrivio dove transitarono intellettuali fascisti e antifascisti.
A partire dal 1926 con l’instaurazione della dittatura fascista, iniziò la resistenza, organizzata in diversi nuclei di oppositori nelle principali città del Nord. L’Ovra, la polizia politica fascista, sgominato il comitato centrale italiano con sede a Milano, concentrò le proprie attenzioni su Torino, dove rimaneva l’organizzazione più risoluta contro il regime. La fazione torinese aveva creato un giornale, “Voci d’Officina”, con il quale assumerà una fisionomia operistica. Colpito il gruppo una prima volta, nel 1931 si riorganizzò sotto la guida di Leone Ginzburg; costituito perlopiù da intellettuali ebrei, ne faranno parte Vittorio Foa, Massimo Mila, Mario e Alberto Levi, e Sion Segre Amar, il cugino dell’efebo biondo.
Pitigrilli, «un ebreo che per le sue vicende personali non aveva simpatia per gli altri israeliti», entrò nel maggio del 1930 nel libro paga dell’Ovra - da qui la nomea di doppiogiochista, trasformista - e fu assunto quale informatore per la Francia; dalle organizzazioni “massoniche” parigine come la Concentrazione antifascista e Giustizia e Libertà (fondata da Carlo Rosselli, Emilio Lussu e Fausto Nitti), partivano infatti le direttive per organizzare gli attentati per colpire e destabilizzare il regime italiano.
Nel maggio del 1931 uscì un romanzo breve con altri nove racconti, raccolti in un unico libro: I vegetariani dell’amore. Il 12 giugno del 1934, SOS (poi Pericle e 343 - queste le firma di Pitigrilli nelle corrispondenze spionistiche), forte del suo insospettato antifascismo e del suo legame familiare con Sion (già arrestato nell’imminenza del referendum del 25 marzo perché sorpreso al confine svizzero con un carico di manifestini e un trentina di copie dei «Quaderni di GL» – Giustizia e Libertà - da portare a Torino per invitare gli elettori a votare NO), riuscì a conoscere personalmente Carlo Rosselli e ad informare gli agenti dell’Ovra sui movimenti dei principali gruppi avversi al regime.
Il 5 dicembre 1931 sposò la ragazza che conobbe grazie all’amico musicista Marcello Boasso. Lei è Deborah Senigallia, figlia di un ricco industriale laniero torinese produttore di un famoso organzino. Nel giugno del ’32 nacque Gianni, loro figlio. Nella primavera del 1934, Piti da Parigi spedì una lettera alla moglie che viveva a Torino: non sono «fatto per vivere da consorte. Certi uomini nascono per il matrimonio. Altri no. Abbi pazienza. Sei giovane. Rifatti una vita.»
Ormai completamente entrato da spia all’interno di GL, firmò articoli sotto falso nome su quella pubblicazione, dopo aver prudentemente avvertito i suoi padroni romani. Spesso a Torino, incaricato di sorvegliare il settore degli antifascisti ebrei, si incontrerà con Alberto Levi e Vittorio Foa. Dalla metà del 1934, Pitigrilli si impegnò nella ricerca della mente che si muove sotto la Mole Antonelliana; inizialmente riterrà fosse Luigi Einaudi, ma quando si trovò di fronte al vero capo degli antifascisti torinesi, il pittore e scrittore Carlo Levi, egli non fu capace di riconoscerlo, anche se intuì che dietro a quel personaggio c’era «un mondo silenzioso e guardingo». Tradendo la fiducia di molti, da spia allargò le sue frequentazioni anche a Parigi, dove conobbe, fra gli altri, Angelo Tosca (che con Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti e Umberto Terracini aveva fatto parte del gruppo torinese «Ordine nuovo»).
II rapporto con l’Ovra servì a Piti anche per mettere in pratica vendette letterarie; infatti, a quasi quindici anni dalla pubblicazione di Mammiferi di lusso, Dino Segre era considerato uno scrittore superato. In tempi di regime era nata una nuova generazione letteraria; fra i principali ricordiamo: Elio Vittorini, Alberto Moravia, Curzio Malaparte (fondatore de «La conquista dello Stato» nel ’24 e, con Bontempelli, de «La Fiera Letteraria») e Ignazio Silone.
15 maggio 1935: alle 7 di mattino la polizia eseguì una retata fra gli antifascisti che per quattordici anni erano stati controllati da Pitigrilli. Per non compromettere la sua posizione Piti pianificherà un arresto programmato ma il piano venne accantonato da Roma - «presenta diversi aspetti pericolosi»; questa la motivazione. Dopo lo smantellamento del gruppo torinese di GL (nel luglio del ’35, Carlo Levi, Pavese e Alberto Levi furono condannati al confino; Norberto Bobbio, Luigi Einaudi e Luigi Salvatorelli ammoniti) la carriera spionistica dello scrittore fu compromessa irrimediabilmente dal verbale tratto dalla dichiarazione di Michele Giua, arrestato il 15 maggio, che aveva capito (con Vittorio Foa – costretto però al silenzio perché in segregazione) che Dino Segre era il responsabile delle spifferate alla polizia.
Nella primavera-estate del 1936, accompagnando la ex moglie dal dentista per curare il loro Gianni, Piti si scontrò in auto e ne nacque una vertenza giudiziaria per la quale si fece assistere dall’avvocatessa Lina Furlan, conosciuta due anni prima nel salotto della Tommasi, nonché amica di entrambi. Appena si rividero fu colpo di fulmine. Uscirà in quell’anno Dolicocefala bionda, la sua settima opera, che non raggiunse livelli di vendita alti poiché il paese, boicottato dal regime, era ancora stordito dall’appena conclusa guerra d’Abissinia.
Nel frattempo «Le Grandi firme», affidato a Cesare Zavattini dall’aprile del ’37, venne definitivamente chiuso dal regime perché il Duce trovò sconveniente la pubblicazione di un racconto ambientato nella povertà e nella criminalità italiane – la novella Fame, di Paola Masino. L’immagine della nazione doveva rifulgere di aspetti edificanti, positivi, esortativi. L’antifascista Lussu, rispondendo al saluto di Piti a Parigi, dandogli della carogna gli fece capire che ormai si sapeva tutto sul suo conto. Anche il regime non gli concesse sconti o favoritismi e dopo averlo fatto controllare da una spia decise di licenziarlo (20 settembre 1939). Dino Segre inoltre si sentì dire che era considerato un fuoriuscito e il ministro per la Cultura Popolare lo trattò da nemico. Sentendosi tagliato fuori, pubblicherà in quell’anno Le amanti e la decadenza del paradosso, che passerà inosservato. Il 10 giugno 1940 gli venne imposto di partire per l’Aquila in un campo d’internamento. Grazie al monsignor Montini e all’aiuto dei pochi amici rimasti riuscirà ad evitare l’internamento – in ottobre il provvedimento che lo destinava al confino verrà annullato grazie all’intervento di Edvige Mussolini, smobilitata dall’industriale Garbini. Celebrando in Chiesa il matrimonio con Lina Furlan, nonostante civilmente risultasse ancora legato alla Senigallia, si avvicinò alla conversione. Piti riprese l’attività di scrittore ne «L’Illustrazione del Popolo», firmandosi con l’appellativo Flamel, con articoli che davano consigli colmi di buon senso e saggezza, lontani dai toni che l’avevano reso celebre. Tentò di farsi riassumere all’Ovra e di farsi consegnare la sua patente d’ariano, ma le sue richieste vennero ignorate. Il 4 dicembre 1941, morì Amalia Guglielminetti ma, dopo tante delusioni, il 15 aprile 1943, la seconda moglie gli darà la nascita del figlio Pym.
Il 25 luglio 1943, con l’Italia non ancora occupata dagli alleati, a Torino, davanti al portone della «Gazzetta del Popolo» ci fu una manifestazione per impedire che un triumvirato (un trio direttivo filofascista), “espressione del passato regime”, prendesse possesso del quotidiano; avvicinatosi un blindato per mantenere l’ordine, vi salì sopra un manifestante gridando che aveva “una persona per bene da proporre”. Il guidatore del mezzo militare senza dar tempo allo sconosciuto di saltar giù, diresse il mezzo verso la questura, seguito da parte della folla che voleva chiedere il suo rilascio. Lo sconosciuto era Pitigrilli, che non sentendosi all’altezza di svolgere il compito di direttore di quel quotidiano, accontentò il desiderio della folla acclamante, proponendo il nome di Tullio Giordana, il quale aveva tutte le ragioni d’avventarsi contro il passato regime. Piti, scriverà articoli di denuncia contro l’antico regime, i suoi comandanti, i magistrati, i medici e gli avvocati, rovesciando sugli altri le sue stesse colpe.
Ma la situazione politica mutò nuovamente. Dopo l’occupazione tedesca dell’Italia e l’armistizio, il 13 settembre 1943, Mussolini, liberato dal Gran Sasso, annunciò la creazione della Repubblica sociale italiana. Dino Segre, la moglie Furlan con il figlio, e il cugino Amar, fuggiranno in Svizzera poco prima dell’inizio delle rappresaglie naziste; il 6 ottobre infatti l’Italia adottò le leggi di Norimberga (che per l’accertamento della razza risalgono addirittura al bisnonno). Il 21 agosto 1943, dopo otto anni di reclusione, verrà liberato il professor Michele Giua, una delle vittime dell’operato di Piti ai tempi della sua collaborazione con il regime nell’Ovra. Il caso Pitigrilli, attraverso canali clandestini, raggiungerà Radio Bari. Dopo la Liberazione nella casa di un commissario dell’Ovra verranno trovati i rapporti fra Dino e la polizia politica fascista.
Il 14 settembre 1945, verrà pubblicamente denunciato dal libro, Ricordi di un ex detenuto politico, 1935-1944. Il 15 l’edizione milanese di «Italia Libera» (organo di GL che commise l’ingenuità di rafforzare la credibilità pubblica di quei documenti copiando in calce la firma), su indicazione del direttore Carlo Levi, pubblicherà le copie dei rapporti che Piti inviava a Roma de Torino e Parigi . Dalle colonne della “Gazzetta del Popolo” interverrà anche il fuoriuscito Mario Levi che, il 25 Marzo ’34 a differenza del compagno Sion, riuscì a scampare all’arresto gettandosi in fiume. Piti cercherà di difendersi e di smentire le accuse, talvolta ridicolizzandole. Gianeri, direttore del giornale satirico torinese “Codino Rosso”, appellandosi al governo, chiese la verità, ma Alcide De Gasperi, non sentì ancora la necessità di fare chiarezza poiché temeva che queste avrebbero potuto innescare altre violenze. A dare definitiva autorevolezza alle voci furono gli atti protocollare dello Stato, pubblicati nella “Gazzetta Ufficiale” del 2 luglio 1946. In quel numero, comparve l’elenco dei confidenti della polizia politica fascista. Tra i 622 nomi figura “ Segre Dino (SOS, Pitigrilli, Piti, Pindaro, Pilli, Pericle), fu David e di Lucia Ellena, nato a Torino il 5 maggio 1893, domiciliato a Torino in via Peschiera 28, scrittore pubblicista”.
Nel gennaio del 1947, finisce di scrivere Mosè e il cavalier Levi, che doveva segnare il suo nuovo corso artistico e spirituale. Il libro narra la storia di due famiglie ebree torinesi che attraversano il fascismo, le leggi razziali e la guerra, ma non verrà pubblicato subito. Qualche mese dopo scriverà anche La meravigliosa avventura, volume in cui la conversione è dichiarata in maniera esplicita. Prima ancora di essere pubblicate (1948), queste due opere furono attaccate da Mario Mariani, convinto che il suo amico sia un bieco opportunista e che rifiuta di credere ad un Pitigrilli cattolico - che si difese nell’appendice di trentun pagine a La meravigliosa avventura, risfoderando il suo stile naturale.
L’attenuarsi dei clamori, i cui echi si persero nella tragicità di alcuni fatti del dopoguerra, che vedevano al centro dell’attenzione Piti, portò alcuni politici italiani a proporre la riabilitazione di Dino Segre. Tra questi l’onorevole Giulio Andreotti, un giovane democristiano sottosegretario alla presidenza del Consiglio retta da Alcide De Gasperi. Ad Andreotti parve “molto marcata” la religiosità del suo interlocutore, tuttavia non ci fu nulla da fare. Alla fine del 1947, la commissione per l’esame dei confidenti della polizia fascista, pronunciandosi sulla richiesta di Foa, Giua, Lussu e Garosci, decretò che la colpevolezza della scrittore era stata dimostrata “irrefutabilmente”. L’eco di tale dichiarazione spinse Piti ad abbandonare l’idea di tornare in patria: il 17 febbraio del 1948, lasciò l’Europa per il Sudamerica, mentre la Sonzogno pubblicherà il terzo dei libri che formano il trittico della sua conversione: La piscina di Siloe.
Sbarcato in Argentina con la famiglia, il 28 marzo rinnegò tutti i libri che gli avevano dato fama e ricchezza e ordinò la Sonzogno di non ripubblicarli mai più. Nel frattempo stabilitosi a Buenos Aires, scrisse sulla rubrica Pimientos dulces (peperoni dolci) del quotidiano del pomeriggio, di grande tiratura e diffusione, «La Razon». Nel frattempo, attraverso il giornale vaticano «L’Osservatore Romano» e tramite «Civiltà Cattolica», l’eco del suo successo giunse in Italia. I suoi articoli, con stile agile e scintillante, verranno letti da migliaia e migliaia di argentini. Pitigrilli «durante il decennio della sua permanenza in terra sudamericana, darà alla stampa un numero di libri che è tre volte superiore a quello che ha pubblicato nei ventotto anni precedenti. Ma queste opere non avranno l’originalità espressiva di quelle del primo periodo».
A metà degli anni Cinquanta in Italia il giudice Alvazzi del Frate concesse alla ex-moglie Sinigallia, la separazione legale e l'autore venne condannato a versare alla donna un assegno mensile di settantacinquemila lire al mese; nel 1955 un golpe militare destituirà il dittatore Peron e Piti abbandonerà il continente rientrando a Parigi dove andrà a vivere in rue de Montparnasse ristabilendo i contatti con Sarte, Cocteau e la Beauvoir.
Dal 1961, riprendendo i contatti con la realtà italiana, si accorse che delle sue vicende non era rimasto nient’altro che sfumate tracce. Iscrisse quindi il figlio all’università di Torino e, saltuariamente, rimpatriò nella sua città natale, pur avendo scelto di eleggere la casa parigina a dimora fissa. Scriverà nelle rubriche di tre periodici cattolici («La Rocca», «La casa» e «Il Messaggero di Sant’Antonio»). Negli anni sessanta pubblicò altri nove libri (raccolte di racconti) ma il ’68 l’aveva ormai reso «un’opera d’arte al museo» più che un fenomeno contemporaneo. Nel 1970 presentò un’istanza per sciogliere il matrimonio che lo univa ancora alla Reri: il tribunale concesse alla Senigallia il diritto agli alimenti. Sempre desideroso di far parlare di sé, ritornò dopo dieci anni al romanzo con Nostra signora di miss tif: «una prolissa narrazione, inzeppata di prediche, dove però risaltano parecchie brillanti definizioni che ricordano il primo Pitigrilli, qualche arguto paradosso e molte similitudini scritte alla vecchia maniera».
Rientrato in Italia a fine aprile, dopo aver trascorso una quindicina di giorni con la moglie Lina e il figlio Pym, s’apprestava a ripartire per Parigi quando, l’8 maggio del 1975, vigilia del suo ottantaduesimo compleanno, dopo aver pranzato s’addormento per sempre.
fonte internet
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