mercoledì 9 maggio 2012

EUGENIO MONTALE: L’INQUIETUDINE DEL POETA...


 
La vita di Eugenio Montale è la vita di un uomo schivo, distaccato e disilluso verso se stesso e la propria stessa esistenza: scrivendo «sempre da povero diavolo e non da uomo di lettere professionale», diviene uno dei massimi rappresentanti della poesia e della cultura contemporanea.                                                                                                                                       Vince il Nobel nel 1975.





Una nuova intensità derivante da una continua ricerca nelle cose e nelle parole di un legame con la situazione umana, originato anche dalla forza di un linguaggio fortemente ancorato al presente; Eugenio Montale individua così il suo punto di equilibrio tra la letteratura e il quotidiano, uno spazio non rifiutato, ma vissuto con un sereno distacco lontano dal turbinoso mutare dei tempi e del significato esistenziale.

Genovese di nascita — la città ligure gli diede i natali il 12 ottobre del 1896 —, Montale nutriva una forte passione per la letteratura e la poesia, approfondite in maniera irregolare e sulla spinta della sete di conoscenza lungo l’arco di tutta la sua vita. Sergio Solmi, Bobi Bazlen e i triestini — Italo Svevo e Umberto Saba —, passando da Ezra Pound e la tanto amata letteratura inglese: furono questi gli autori che segnarono i primi approcci artistici di Montale fino al periodo fiorentino e alla nomina a direttore del Gabinetto Viesseux a Firenze, città che lo vide tra i suoi più brillanti intellettuali negli anni dal 1929 al 1938. Il suo rifiuto di aderire al partito fascista lo costrinse ad abbandonare la prestigiosa carica e dedicarsi ad attività di traduzione, inframmezzata da collaborazioni con alcune riviste. Durante la seconda guerra mondiale fu richiamato alle armi, ma ben presto fu congedato e visse il periodo dell’occupazione nazista a Firenze. Dopo la liberazione si iscrisse al partito d’azione, ma la sua militanza politica durò poco a causa della delusione provata nell’osservare come tutte le speranze in un cambiamento si riducevano allo scontro tra la sinistra e il clericalismo, a discapito di quanti auspicavano una svolta liberista di stampo europeo, che portasse alla nascita di un’Italia aliena dai retaggi nazionalistico-provinciali e proiettata in un orizzonte di più ampio respiro.

Montale indaga l’uomo e il suo isolamento nel mondo, osservati anche rispetto al fluire di natura e storia, come insegnavano i filosofi esistenzialisti e i poeti francesi — Charles Baudelaire innanzitutto — e inglesi e americani — Robert Browning, Thomas Stearns Eliot ed Ezra Pound —. La grandezza del poeta genovese risiede in quella straordinaria abilità nel tentare di comprendere l’occidente a lui contemporaneo e i cambiamenti che le arti e il sociale avevano subito dallo svilupparsi di una cultura massificata di carattere planetario. Egli aspira a essere una voce laica, razionale, italiana ed europea, pronta a sondare anche gli aspetti più terrificanti del presente con la consapevolezza, di fronte ai sinistri presagi del futuro, dei suoi limiti e dell’inarrestabile corsa degli eventi.

Una straordinaria capacità di comprensione rese Montale un acuto lettore e critico dei libri più disparati, esaminati razionalmente per andare a scovare al loro interno le tracce della condizione umana e della forza della conoscenza. L’arte, la parola, l’atto del comunicare erano per il poeta dotati di concretezza, perciò, radicati nell’esistenza individuale e proiettati in un ambito storico e collettivo, divenendo così concreti e influenti. La sua poesia nasce dalla comprensione dei limiti ad essa connessi, dalla presa di coscienza della contemporaneità, vista come una minaccia nei confronti dell’arte, in pericolo non a causa della povertà del linguaggio, ma travolta dalle tante e troppe parole che albergano nel mondo. L’unica risposta possibile è la poesia del confronto con la fine, degli aspetti umani e civili positivi e, soprattutto, degli oggetti: concreti rivelatori del senso interno delle cose, nel solco di Eliot e della nuova vitalità di simbolo e allegoria.

Montale è allo stesso tempo influenzato dalla tradizione poetica italiana, rivista alla luce di un rapporto differente, diretto e vitale, dal quale trarre i necessari presupposti per comprendere la condizione moderna. Tradizione e contemporaneità viaggiano su di un binario parallelo che porta a un linguaggio poetico perfetto, essenziale, ma denso e profondo

Ossi di seppia, dato alle stampe nel 1925, è il primo esempio di questo tipo di poesia generata da un’emozione intima ed espressa attraverso l’essenzialità degli oggetti e del linguaggio. Montale cerca nuove forme, ma non esita nella sperimentazione dei metri tradizionali, raggiungendo un eccellente risultato di linearità sintattica; i toni sublimi si trasformano in concretezza e la parola diventa precisa, tecnica nelle designazioni per diventare poi ironica e colloquiale in virtù di un abbassamento del linguaggio. Montale è una voce immersa nel paesaggio, ma non direttamente partecipante alla vita, interrogata attraverso segni, forme, suoni e movimenti, scanditi dal procedere del tempo. La vita diventa così inafferrabile, vuota e reale, disgregandosi in un continuo equilibrio con l’io e la sua distanza che si risolve in angoscia e rovina.

Le occasioni, pubblicate nel 1939 da Einaudi, ridimensionano la riflessione esistenziale della precedente poetica, la parola punta la sua attenzione sugli oggetti, tralasciando qualsiasi aspetto meditativo e problematico per concentrarsi sul susseguirsi di immagini nette, frutto anche di un forte impatto di suoni, parole e frasi. La poetica diventa complicata, ardua, impenetrabile, portatrice di un messaggio volutamente occulto, mostrandosi, però, tesa alla ricerca del contatto con l’altro che diventa una donna persa o irraggiungibile, o la lontananza del tempo e il suo rievocare esperienze, oggetti e immagini sbiadite nella memoria e ormai trascorse e intangibili. La donna rappresenta la salvezza, il riscatto del poeta da questo vivere e dall’avvicinarsi, annunciato dalla volgarità e dalla mediocrità del presente, della catastrofe; essa è reale in alcuni casi, mentre in altri rivela le tracce di persone diverse, restando, comunque, l’ultimo baluardo contro il precipitare degli eventi.

La bufera e altro, terza raccolta poetica di Montale risalente al 1956, contiene poesie pubblicate precedentemente in alcune riviste e scritte tra il 1940 e il 1954. La struttura aperta dell’opera tradisce un intento romanzesco di prossimità con la Vita Nuova dantesca, nella quale il presente si intreccia con l’amore per una donna salvatrice. La Beatrice di Montale è moderna, ostile e amorevole, lotta contro la violenza e il degrado, permettendo al poeta di riconoscersi e affermare la strenua resistenza della poesia, confrontandosi con il mondo e la sua diffidenza. Questa figura femminile si muove in un ambito enigmatico, cambia qualità e nomi, lanciando segnali contrastanti al poeta, al cui elegante verso giocosamente si nasconde. Le figure femminili si intrecciano anche alle diverse situazioni storiche in atto: il passaggio dalla speranza della fine della guerra a un dopoguerra angoscioso e sinistro diretto verso la fine della civiltà.

Al termine di un lungo periodo di silenzio poetico, negli anni ’60 Montale ritorna con una nuova poesia, più diretta, quasi dimessa, assolutamente lontana dal tono alto ed essenziale della poetica precedente. La parodia, l’ironia, la diversità di stili prendono il posto della tensione lirica per mostrarsi completamente attraverso una revisione della propria poetica, ora degradata a un livello più basso. La nuova arte si mostra semplice solo in apparenza, assumendo su di sé il vuoto delle banalizzazioni con disincanto e ironia, ma conservando come suo punto di riferimento la memoria. Il passato si confronta con se stesso e il presente in una nuova dimensione, nella quale il contemporaneo è ancora più angoscioso, tra la perduta giovinezza e l’attuale vecchiaia come scoperta della precedente condizione e del suo significato. La voce di Montale sopravvive perché non può accettare il mondo, costretta a negarsi sottraendosi alla propria identità e alla verità. Satura, raccolta uscita nel 1971, sarà il primo risultato di questa nuova poetica, di cui una parte era già stata pubblicata dieci anni prima, e il suo influsso resterà tale anche nelle composizioni degli ultimi anni, dove il poeta, sfuggendo al presente, osserva i dissensi, il disordine e la confusione di una vita artefatta.

È il cosiddetto secondo Montale, quello che afferma di avere aperto ai suoi lettori, Il retrobottega della sua poesia. Nell'intervista Francesca Ricci, autrice della prima opera di esegesi del Diario del '71 e del '72, parla delle 90 schede, una per ogni poesia, che costituiscono il suo commento integrale a questa raccolta.

Anche in Quaderno di quattro anni, così come in generale in Montale in questa fase della sua vita, si riconoscono i temi trattati in precedenza dal poeta, in relazione alla vita e alla morte, al tempo e alla memoria e ai ricordi personali, che proiettano un senso inquietante sulla vita, in modo particolare nelle composizioni: Vivere, Sul lago d’Orta, Ai tuoi piedi, In negativo, Fine di settembre, Dormiveglia, I Miraggi e Morgana.

«È ancora possibile la poesia?» — si chiedeva Montale — «In un mondo nel quale il benessere è assimilabile alla disperazione e l’arte, ormai diventata bene di consumo, ha perso la sua essenza primaria?». Questa domanda, rivolta all’Accademia di Svezia il 12 dicembre del 1975, durante la cerimonia di consegna del premio Nobel, lo colloca quale spirito antesignano rispetto ad un futuro, oggi reale, inquietante e problematicamente terrificante, da lui individuato e scandagliato con anticipo impressionante.

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