venerdì 22 febbraio 2013

150 ANNI DI LINGUA ITALIANA: DALLE ORIGINI AD OGGI


Manzoni e l'unità della lingua


DA DANTE ALIGHIERI AD ALESSANDRO MANZONI, LA LINGUA ITALIANA SI È TRASFORMATA PROFONDAMENTE: VEDIAMO COME E PERCHÉ IL FIORENTINO DI DANTE È STATO "ELETTO", GRAZIE AL MANZONI, COME LINGUA UFFICIALE DEL "BELPAESE".





Nella storia della letteratura italiana la cosiddetta "questione della lingua" ha reso quest'ultima un tema di dibattito sempre attuale ed interessante, che ha assistito nel corso dei secoli agli innumerevoli interventi dei nostri maggiori poeti e scrittori i quali, con i loro scritti teorici e le loro prese di posizione spesso contrastanti l'una con l'altra, hanno contribuito alla continua revisione e riproposizione del problema linguistico. Dal volgare "aulico, illustre, cardinale e curiale" di Dante Alighieri (considerato il padre della nostra lingua) si passa così alla lingua "candida" dei puristi, all'italiano "vago" del Leopardi, al realismo dialettale del secondo '800, fino a giungere alla "prosa d'arte" degli scrittori della "Ronda", nel nostro secolo.
Per giudizio unanime della critica, fra gli interventi più autorevoli nel campo della questione della lingua, va senza dubbio citato quello, nella prima metà del secolo scorso, di Alessandro Manzoni, il cui romanzo storico "I promessi Sposi" rappresenta, secondo molti, il romanzo italiano per antonomasia, oltre ad essere la maggiore fra le opere dell'autore.
Tanto più interessante ci appare l'intervento del Manzoni sulla problematica linguistica se consideriamo che l'idea che lo scrittore ebbe della propria lingua non restò sempre la medesima, ma fu caratterizzata, al pari della conversione religiosa, da una continua e non sempre felice evoluzione.
Occorre precisare innanzitutto che già in parecchi scritti successivi alla conversione (1810) e precedenti la prima stesura di "Fermo e Lucia" (1823), l'importanza e la necessità di una lingua comune appare come un problema fortemente sentito dallo scrittore, principalmente sotto due aspetti:
•  la lingua, partendo da premesse "illuministiche", viene considerata in un primo luogo come "mezzo di comunicazione", ed in quanto tale, deve essere essenzialmente chiara e compresa dal maggiore numero di persone possibile.
Si tratta, quindi, dell'aspetto "pratico" della lingua, e gli scrittori manzoniani ai quali possiamo fare riferimento sono il piccolo saggio "Sentir Messa", pubblicato postumo, nonché, fra gli Inni Sacri, la "Pentecoste", nella quale troviamo messo in risalto il miracolo della polilalìa, in virtù del quale gli Apostoli furono in grado di predicare il Vangelo in tutte le lingue del mondo conosciuto, potendo così portare il Verbo di Dio a tutti i popoli della terra
•  La seconda motivazione è invece di carattere ideale e patriottico in quanto una nazione non può dirsi veramente tale se non è unita dal punto di vista militare ("una d'arme") e religioso ("d'altare"), ma neanche può essere considerata "una" se non si trova unita nella lingua e nel sentimento (confronta "Marzo 1821" , dalle Odi civili).
Successivamente alla presa d'atto, da parte del Manzoni, dell'indiscussa necessità di questo "uffizio essenziale", lo scrittore cercherà continuamente, nelle sue opere successive e soprattutto nel suo romanzo-capolavoro, di impegnarsi attivamente nella ricerca di un nuovo italiano letterario, che risulti poi compatibile con la lingua d'uso comune, senza doversi mai identificare in essa.
La lingua auspicata dal Manzoni deve essere in primo luogo conforme alla "Poetica del vero", teorizzata nella prima stesura della "Lettera sul Romanticismo al Marchese C. D'Azeglio" utile per iscopo, interessante per mezzo e "null'altro fuor che il vero" per soggetto.
Questi requisiti trovano, dal punto di vista linguistico, la loro più elevata realizzazione nel romanzo "I Promessi Sposi", la cui evoluzione attraverso le quattro stesure successive (1821, '23, '27, '40), ci testimonia il già accennato carattere dinamico della problematica linguistica in Manzoni, che riesce infine a trovare una risoluzione nella cosiddetta "quarantana", ossia la celebra edizione del romanzo che tutti conosciamo, pubblicata dall'autore dopo aver "risciacquato i panni in Arno".
La scelta che lo scrittore opera per la lingua del suo romanzo si concretizza nel fiorentino parlato dalle persone colte, dal punto di vista lessicale e nella disposizione sintattica simile a quella del francese letterario.
Le motivazioni di questa scelta, fornite dall'autore stesso ed approfondite peraltro dalla critica linguistica, sono le seguenti: la scelta del fiorentino parlato da persone di un certo livello culturale risolve brillantemente il duplice problema di una lingua che suoni "viva e vera" da un lato e che contemporaneamente possa vantare un'illustre tradizione letteraria (basti citare Dante e Petrarca), mentre la struttura sintattica francese, eredità del soggiorno parigino dello scrittore era parallelamente funzionale al "realismo psicologico" dei personaggi.
Un ulteriore "motivo linguistico" presente nel romanzo può essere riscontrato nello stesso espediente del manoscritto secentesco, una tecnica narrativa che costituiva un cliché romantico al tempo dell'autore, ma che quest'ultimo seppe reinterpretare conformemente alla propria poetica del vero (è del critico Luigi Russo la tesi secondo la quale è il Seicento il vero protagonista del romanzo), non nascondendo però una velata polemica contro la ridondante ma spesso indecifrabile prosa barocca.
Un ulteriore spunto d'analisi, che contiene già in sé un giudizio dell'autore sulla lingua italiana, è costituito dall'uso del cosiddetto "idioletto", ossia della parlata tipica che distingue univocamente ogni singolo personaggio e che allo stesso tempo fa vivere in sé l'intera sua psicologia.
Un esempio significativo di idioletto può essere trovato senz'altro nel "latinorum" del dottor Azzeccagarbugli, il quale, se da un lato va interpretato come l'ennesima richiesta di chiarezza da parte di una lingua che deve soprattutto mettere gli uomini in condizione di comunicare tra loro, dall'altra parte apre le porte ad una nuova tematica che meriterebbe un adeguato approfondimento: la lingua può rilevarsi uno strumento di oppressione.
Purtroppo un'esauriente trattazione di questa problematica comporterebbe un'ampia digressione sulla cultura generale e poi, nel caso specifico del Manzoni, una discussione sul suo pessimismo cristiano.
Tutto ciò esula dal nostro specifico campo di indagine e mi limiterò ad affermare che al grande autore lombardo va comunque riconosciuto il merito di essere stato il primo ad aver posto il problema in termini così realisticamente efficaci. Non tutte le scelte effettuate dal Manzoni in campo linguistico sono state apprezzate: c'è chi, tra i critici, gli rimprovera di avere peccato nei confronti della sua stessa "poetica del vero e del verosimile", servendosi del toscano in luogo del dialetto lombardo, o mettendo sulle labbra di Lucia, una contadina, l'elevato lirismo delle parole dell' "Addio ai Monti", e c'è infine chi, come il Croce, sente la lingua del romanzo come "pregna d'oratoria e d'odor di sagrestia" (giudizio, peraltro, completamente revocato in seguito, quando definì "I Promessi Sposi" un'opera di grande arte e fantasia).
La critica storicista, contrariamente al giudizio denigratorio di Antonio Gramsci, vede nell'idioletto del Manzoni un precursore del realismo linguistico teorizzato dal verismo (Capuana, Verga) nella seconda metà dell'800 ma nega all'autore di aver saputo conciliare armonicamente lingua letteraria ed uso quotidiano.
Volendo concludere, ritengo sia opportuno far notare che rileggendo la citazione del Manzoni oggi, risulti immediatamente evidente che quello che l'autore temeva si rivelasse un "tentativo inutile", oggi può dirsi senza dubbio un "tentativo riuscito".
In tutte le scuole si parla e si scrive in Italiano e ciò significa che, prendendo spunto dalla citazione, "gli uomini dell'intera nazione possono fra loro intendersi il più pienamente possibile".
Certamente Alessandro Manzoni non poteva, nel primo Ottocento, prevedere l'enorme importanza che avrebbero avuto nel nostro secolo i mass media, ed il ruolo fondamentale che tutt'ora essi rivestono nell'unificare, aggiornare e promuovere la lingua. E' interessante notare come, al giorno d'oggi, si pensi addirittura ad una lingua planetaria parlata e compresa dagli uomini di tutto il mondo e come essa si vada sempre più identificando con la lingua inglese (dopo il fallito tentativo europeo dell'esperanto); la più ricca di vocaboli e la più semplice, secondo molti.
E' certo però che il saper parlare una lingua "mondiale" non debba in alcun modo significare una rinuncia al proprio patrimonio culturale etnico, fornitoci dalla "lingua dei padri", che costituisce un valore umano immenso ed irrinunciabile.
Da questo deriva l'impegno a non dimenticare mai il proprio dialetto, così come sarebbe assurdo seppellire una volta per sempre le lingue morte, in particolar modo il Greco e il Latino, una lingua, quest'ultima, che laddove per il Manzoni poteva essere negativizzata come strumento di oppressione, per Dante Alighieri - e sembra quasi un paradosso - essa era invece proprio sinonimo di "chiarezza" (confronta Paradiso, XV).


ALESSANDRO MANZONI











Alessandro Manzoni nacque a Milano nel 1785,  i genitori del Manzoni si separarono quando egli era ancora molto giovane. Per questo motivo dovette trascorrere l’infanzia e la prima giovinezza, fino al 1801, in collegi di padri Somaschi (prima a Merate, poi a Lugano) e Barnabiti (a Milano), dove ricevette un’educazione classica, ma subì anche l’arido formalismo e la regola tipica di quegli ambienti.
Quando uscì dal collegio aveva sedici anni e idee razionaliste e libertarie. Si inserì presto nell’ambiente culturale milanese del periodo napoleonico, strinse amicizia con i profughi napoletani Cuoco e Lomonaco, frequentò poeti già affermati e noti come Foscolo e Monti. Trascorse questo periodo lietamente, tra il gioco e le avventure galanti, ma dedicandosi anche al lavoro intellettuale e alle composizioni poetiche: l’esempio più illustre è rappresentato dal poemetto Trionfo della libertà. Deluso dal giacobinismo scrisse sonetti e idilli, il più maturo dei quali sembra essere Adda (1803).
L’anno successivo terminò la stesura di quattro Sermoni: Amore a Delia, Contro i poetastri, Al Pagani, Panegirico a Trimalcione, composizioni satiriche ricche di echi pariniani e alfieriani. Nel 1805 lasciò la casa paterna e raggiunse la madre a Parigi. Carlo Imbonati, compagno della madre dopo la separazione, era ormai morto. In suo ricordo, Manzoni scrisse un carme in 242 versi sciolti, intitolato In morte di Carlo Imbonati. Egli non aveva mai avuto un rapporto stretto con la madre, ma tra loro si creò ben presto una affettività intensa, che fu destinata a cambiare la vita dello scrittore. A Parigi frequentò ambienti intellettuali popolati da personaggi come Cabanys, Thierry, Tracy, di posizioni liberali e forte rigore morale. Il rapporto più importante, però, per Manzoni fu quello stretto con Claude Fauriel: attraverso un fitto scambio epistolare durato qualche anno, a poco a poco, questi divenne per il giovane Manzoni un importante punto di riferimento nella sua attività di scrittore.

A Parigi, il contatto con ecclesiastici di orientamento giansenista incise anche sulla conversione religiosa. Sul suo ritorno alla fede cattolica, Manzoni mantenne sempre un certo riserbo e, per questo motivo, è quasi vano tentare di ricostruirne le fasi interiori. Dovette essere importante l’influsso della giovane moglie, Enrichetta Blondel, figlia di un banchiere ginevrino, conosciuta a Blevia sulle colline bergamasche. Anche la Blondel subì un rivolgimento interiore significativo: sotto la guida dell’abate genovese Eustachio Degola, si avvicinò al cattolicesimo e fece battezzare col rito romano la primogenita Giulia Claudia, convincendo il marito, in seguito, a risposarsi con rito cattolico. Precedentemente, infatti, il loro matrimonio era stato celebrato con rito calvinista. È da dire che, in Manzoni, la conversione si accompagnò al primo manifestarsi di certe crisi nervose, che poi lo angustiarono per tutta la vita.

Nel 1810 lo scrittore lasciò Parigi per tornare definitivamente a Milano. La sua visione della realtà era ormai completamente improntata al cattolicesimo. Il mutamento si ripercosse anche sulla sua attività letteraria: smise di comporre versi dal tono classicheggiante, (l’ultimo esemplare rimane Urania, un poemetto del 1809) per dedicarsi alla stesura degli Inni sacri ( 1812-1815), che aprirono la strada ad una successiva produzione di stampo romantico, oltre che storico e religioso.

Una volta tornato in Italia, poi, Manzoni condusse la vita del possidente, dividendosi tra la casa milanese e la villa di Brusuglio. La sua esistenza fu dedicata allo studio, alla scrittura, alle intense pratiche religiose, alla famiglia che, nel frattempo, diveniva numerosa. Fu vicino al movimento romantico milanese e ne seguì tutti gli sviluppi (un gruppo di intellettuali si riuniva a discutere a casa sua), ma non partecipò mai, direttamente, alle polemiche con i classicisti e declinò l’invito a partecipare al «Conciliatore».

Anche nei confronti della politica ebbe un atteggiamento analogo, di sinceri sentimenti patriottici e unitari, seguì con entusiasmo gli avvenimenti del 1820-1821, ma non vi partecipò attivamente e non venne colpito dalla dura repressione austriaca che ne seguì. Sono questi gli anni di più intenso fervore creativo, in cui nacquero le odi civili, la Pentecoste, le tragedie (Il conte di Carmagnola, Adelchi), le prime due stesure de I promessi Sposi (inizialmente intitolato Fermo e Lucia), oltre alle Osservazioni sulla morale cattolica, al Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, ai saggi di teoria letteraria sulle unità drammatiche e sul Romanticismo.
In seguito Manzoni, per dare vita alla stesura finale del romanzo a livello formale e stilistico, si trasferì a Firenze nel 1827, in modo da entrare in contatto e "vivere" la lingua fiorentina delle persone colte, che rappresentava per l'autore l'unica lingua dell'Italia unita. Rielaborò I promessi sposi dopo la "risciacquatura in Arno" facendo uso dell'italiano nella forma fiorentina colta e nel 1840 pubblicò questa riscrittura. Con ciò assumeva che quella era la prima vera opera frutto totale della lingua italiana.
Con la pubblicazione de I promessi sposi nel 1827, si può dire concluso il periodo creativo di Manzoni. Successivi tentativi lirici, come un inno sacro sull’Ognissanti, rimangono incompiuti. Manzoni tese sempre più a rifiutare la poesia considerata “falsa” rispetto al “vero storico e morale”. Conseguentemente, approfondì interessi filosofici, storici e linguistici. L’amicizia con Claude Fauriel venne sostituita da quella con Antonio Rosmini, un filosofo cattolico, che presto divenne la sua guida spirituale. Negli anni della maturità, la vita di Manzoni fu funestata da crisi epilettiche, una serie interminabile di lutti (la morte della moglie, della madre, di parecchi dei figli) e dalla condotta dissipatrice dei figli maschi. Nel 1837 si risposò con Teresa Borri Stampa, che morì poi nel 1861.

Scrivendo nel 1842 Storia della colonna infame, Manzoni evita qualsiasi spunto narrativo, rimettendo in questo modo al lettore, posto di fronte alla crudezza di quanto accaduto, ogni giudizio. Il saggio è una cronaca asciutta e distaccata dei fatti che si svolsero intorno al processo ai presunti untori che ebbero la sfortuna di essere accusati di aver propagato la peste che sconvolse Milano nel XVII secolo

Ormai lo scrittore era divenuto un personaggio pubblico, nonostante il suo atteggiamento sempre schivo e appartato. Durante le Cinque giornate, nel 1848, seguì con vigore gli eventi politici, pur senza parteciparvi attivamente e diede alle stampe Marzo 1821, per anni tenuta nascosta. Quando il regno d’Italia si ricostituì nel 1860, fu nominato senatore. Pur essendo profondamente cattolico, era contrario al potere temporale della Chiesa, e favorevole a Roma capitale. Nel 1861, infatti, votò a sfavore del trasferimento della capitale da Torino a Firenze, come tappa intermedia verso Roma. Nel 1872, dopo la conquista della città da parte delle truppe italiane, ne accettò la cittadinanza onoraria, con scandalo degli ambienti cattolici più retrivi. Negli anni della sua lunga vecchiaia fu circondato dalla venerazione della borghesia italiana, che vedeva in lui non solo il grande scrittore, ma anche un maestro, una guida intellettuale, morale e politica. Soprattutto il suo romanzo fu assunto nella scuola con tale funzione.

Morì a Milano nel 1873, a ottantotto anni,  gi furono tributati solenni funerali, alla presenza del principe ereditario Umberto. Verdi gli dedicò la sua Messa da Requiem.


lunedì 18 febbraio 2013

MULTINAZIONALI: QUELLA SPORCA DECINA...



Sfruttamento del lavoro, anche minorile, inquinamento, influenza sulle organizzazioni internazionali. Una lista nera delle dieci multinazionali più pericolose al mondo, a cominciare da Chevron (foto, protesta alla riunione annuale dei soci), De Beers, Philip Morris, Coca cola. Ma il loro dominio dipende da quelli che sono dominati: sempre più cittadini consumatori in tutto il mondo sono informati e pensano che quelle imprese non possono fare a meno di loro e dei lavoratori. 
E questa consapevolezza alle imprese non piace...



Inquinamento dei fiumi e dei mari, finanziamento di guerre e guerriglie, distruzione di terre 
coltivabili, influenza sulle organizzazioni internazionali per non far approvare trattati o per far modificare leggi e regolamenti, sperimentazione su animali, sfruttamento del lavoro, anche minorile, massiccia deforestazione, uso e diffusione di prodotti transgenici. Sono tante le multinazionali che violano leggi, commettono crimini e inquinano impunemente il pianeta. La rivista ecologista spagnola Ecocosas (www.ecocosas.com)  ha stilato una lista nera delle dieci multinazionali più pericolose al mondo. Eccola.
1. Chevron
Sono diverse la grandi compagnie petrolifere che starebbero in questa lista, ma la Chevron merita un posto d’eccezione. Tra il 1972 e il 1993 la Chevron (allora Texaco) ha riversato 18 miliardi di galloni di acqua tossica nei boschi tropicali dell’Ecuador senza intervenire minimamente, distruggendo i mezzi di sussistenza degli agricoltori locali e facendo ammalare le popolazioni indigene.
Nel 1998 la Chevron ha contaminato anche gli Stati Uniti, la città di Richmond (California) ha querelato la compagnia per smaltimento illegale di sostanze inquinanti senza aver effettuato il trattamento delle acque reflue, contaminando così le forniture di acqua. Lo stesso è accaduto nello New Hampshire nel 2003.
La Chevron è stata responsabile della morte di diversi nigeriani che hanno protestato contro l’impresa per la sua presenza e per lo sfruttamento del delta nigeriano. La compagnia ha pagato la milizia locale conosciuta per i suoi abusi contro i diritti umani, per mettere a tacere le proteste, fornendo loro perfino elicotteri e barche. I militari aprirono il fuoco contro i manifestanti, e rasero poi al suolo i loro villaggi.
2. De Beers
Questa impresa non bada a spese, e finanzia, appoggia e crea autentiche guerriglie e dittature del terrore per poter continuare a ottenere, attraverso lo sfruttamento di bambini e adulti, la pietra preziosa.
In Botswana, De Beers è stata accusata per la “pulizia” delle terre da cui estrae i diamanti, e per il trasferimento forzato dei popoli indigeni che vivevano li da migliaia di anni. Pare che il governo abbia tagliato le forniture d’acqua, minacciato, torturato e impiccato pubblicamente i dissidenti.
Per non parlare della sua quasi totale assenza di responsabilità verso l’ambiente, degli inesistenti diritti dei lavoratori, delle vite umane, e delle sue campagne sudice e maschiliste.
3. Philip Morris
Philip Morris è il più grande produttore di sigarette degli Stati Uniti e del mondo. È ormai noto che le sigarette causano cancro nei fumatori, e difetti di nascita nei bambini di madri che fumano durante la gravidanza. Il fumo di sigaretta contiene 43 cancerogeni conosciuti e più di 4.000 sostanze chimiche, incluso il monossido di carbonio, la formaldeide, il cianuro di idrogeno, l’ammoniaca, la nicotina e l’arsenico.
La nicotina, sostanza chimica che costituisce il principale elemento psicoattivo nel tabacco, da dipendenza psicologica. Fumare aumenta la pressione arteriosa, danneggia il sistema nervoso centrale e la costrizione dei vasi sanguigni. Le cicche di sigarette sono uno dei principali inquinanti che i fumatori buttano via quotidianamente e sono lenti a degradarsi. Molti di questi filtri si fanno strada nel terreno o nell’acqua, dove i loro componenti chimici si comportano come vere sanguisughe.
Il tabacco contamina la terra con gli estesi ettari di monocoltura, cosparsi quotidianamente con agrotossici, e anche la sua produzione industriale inquina (si utilizzano, infatti, enormi quantità di carta, cotone, cartone, metallo, combustibili …), il suo consumo inquina l’atmosfera, danneggia chi le compra e chi sta loro vicino. Le sue cicche impiegano anni a degradarsi disperdendo nel terreno e nell’acqua un’enorme quantità di sostanze tossiche.
4. Coca-Cola
La bevanda preferita del mondo o “il latte del capitalismo”, accumula querele e sanzioni in diversi paesi a causa delle gravi contaminazioni, delle cattive pratiche lavorative e per l’uso di acque non autorizzate.
Nella fase di produzione, la compagnia utilizza quasi tre litri di acqua per ogni litro di prodotto finito. Le acque di scarto sono costituite da sostanze inquinanti che la multinazionale deposita in luoghi protetti, come accadde in Colombia, situazione per la quale fu multata nell’agosto scorso dalla Segreteria Regionale per l’Ambiente del municipio di Bogotá. È stato dimostrato che la compagnia aveva scaricato acque residuali nell’Humedal de Capellanía, nella zona di Fontibón.
Il fatto è considerato un attentato contro un’area di speciale importanza e protezione ecologica. Il processo di inquinamento dell’Humedal de Capellanía iniziò con la scadenza del permesso di riversamento concesso alla multinazionale per cinque anni e con la non autorizzazione della Segreteria per l’Ambiente a rinnovare tale permesso. Successivamente, grazie a dei sopralluoghi tecnici, è stato verificato lo stato della rete fognaria di Coca-Cola e la realizzazione di discariche industriali, chiaramente non autorizzate.
Una situazione molto simile si è verificata in India nel 2005, dove un migliaio di manifestanti hanno marciato per chiedere la chiusura dello stabilimento vicino Varanasi. Denunciavano che tutte le comunità vicine agli stabilimenti di imbottigliamento Coca-Cola stessero subendo l’espropriazione delle loro terre e l’inquinamento delle falde acquifere.
Analisi tossicologiche hanno dimostrato la presenza di alte percentuali di pesticidi vietati come il DDT e, da “buoni vicini”, hanno distribuito i loro scarichi industriali ai contadini di Mehdigani dicendo che sarebbero serviti da “concime”. Il risultato è che oggi quei suoli sono sterili.
Come se non bastasse, la bevanda in questione, oltre a consumare acqua in eccesso, non apporta nessun elemento nutritivo, anzi, contiene alte concentrazioni di zucchero, uno dei fattori che maggiormente contribuisce all’obesità che colpisce sempre di più le popolazioni dei paesi in via di sviluppo, generando inoltre, problemi dentali. L’effetto dissetante è dato dall’acido fosforico.
Inoltre, la Coca-Cola è stata espulsa da diverse università (Atlanta, Toronto, California, Irlanda, Berlino); le bottiglie di plastica di Coca-Cola non sono di materiale riciclato, ma di plastica vergine; guida potenti gruppi di potere, si è opposta al trattato di Kyoto attraverso le sue lobby US Council for International Business e la Business Round Table, è riuscita a far modificare regolamenti nell’Unione Europea attraverso l’American Chamber of Commerce, è la fondatrice dell’International Life Science Institute che influenza molto la Fao e la Oms; la Coca-Cola contiene prodotti transgenici.
La prossima volta che compri una bevanda, ricorda l’inquinamento degli Humedales, l’uso non autorizzato di acque sotterranee, la violenza ecc.
5. Pfizer
Come se la massiccia sperimentazione su animali non fosse già abbastanza straziante, Pfizer ha deciso di utilizzare i bambini nigeriani come fossero porcellini d’India. Nel 1996 la casa farmaceutica andò a Kano, in Nigeria, a testare un antibiotico sperimentale nel terzo mondo, per combattere malattie come il morbillo, il colera e la meningite batterica.
Diedero trovafloxacina a circa 200 bambini. Decine di loro morirono nell’esperimento, mentre molti altri svilupparono malformazioni fisiche e menomazioni mentali. Pfizer può vantarsi anche di essere tra le prime dieci compagnie statunitensi responsabili dell’inquinamento atmosferico. Per non parlare degli incentivi milionari che fornisce ai medici e ai governi affinché prescrivano i suoi “farmaci”.
6. McDonald’s
Ogni anno migliaia di bambini consumano il fast food (“cibo veloce”) di un’impresa responsabile della deforestazione dei boschi, dello sfruttamento dei lavoratori, e della morte di milioni di animali: McDonald’s.
Strategie di marketing abilmente architettate hanno permesso l’espansione di McDonald’s in 40 paesi, dove l’empatica immagine di Ronald McDonald e il suo Happy Meal, vende ai bambini il gusto per il cibo rapido, associandolo a un’idea di allegria. Questa pubblicità ha avuto un grande successo in diverse parti del mondo, contribuendo agli alti tassi di obesità infantile.
L’alimentazione che propone questa impresa è totalmente carente di sostanze nutrienti. Inoltre, questo cibo è conosciuto in tutto il mondo come “cibo spazzatura”, e non è un caso che riceva questo nome.
Gli hamburger e i “nuggets” offerti da McDonald’s provengono da animali mantenuti in condizioni artificiali per tutta la loro vita: privati di aria libera e luce solare, vengono ammucchiati al punto da non poter allungare le zampe o le ali (nel caso dei polli), rimpinzati di ormoni per accelerare la crescita e di antibiotici per arrestare le molteplici infezioni alle quali sono esposti a causa delle insalubri condizioni che genera il sovraffollamento.
I polli vengono fatti ingrassare al punto che le zampe non sono più in grado di reggere il loro peso. Per la concessione del franchising, McDonald’s acquista a basso prezzo terreni che prima ospitavano boschi tropicali e li deforesta per consacrarli all’allevamento. Offre salari minimi ai suoi dipendenti, approfittando delle minoranze etniche e assumendo minori.
I prodotti di McDonald’s, con il loro alto contenuto di grassi, zuccheri e sale, contribuiscono al sovrappeso dei bambini, alla resistenza all’insulina e al conseguente Diabete di Tipo 2. Ah, vi avevo detto che è stata una delle finanziatrici della campagna di George W. Bush?
7. Nestlé
Neslté e la sua enorme distesa di crimini contro l’uomo e la natura, come la massiccia deforestazione nel Borneo – l’habitat degli orango è stato seriamente compromesso – per coltivare la palma da olio, l’acquisto di latte dalle fattorie confiscate illegalmente da un despota in Zimbabwe. La Nestlé iniziò a provocare gli ambientalisti con le sue ridicole affermazioni che l’acqua imbottigliata è “ecologica”, da li in poi la sua sinistra rete di controllo e distruzione è andata dipanandosi.
Nestlé ha condotto campagne a livello mondiale per convincere le madri dei paesi in via di sviluppo a utilizzare il suo latte per neonati al posto del latte materno, senza fornire le informazioni sui possibili effetti negativi. Pare che Nestlé abbia assunto donne vestite da infermiere per portare gratuitamente il latte in polvere in questi paesi, latte che viene spesso mischiato con acqua contaminata. I mezzi di informazione non hanno parlato dei bambini morti di fame perché, una volta finito il latte, le loro madri non potevano permettersi di comprarne altro.
8. British Petroleum
Chi potrebbe dimenticare l’esplosione, nel 2010, di una piattaforma petrolifera nella costa del Golfo del Messico, che causò 11 morti oltre alle migliaia di uccelli, tartarughe marine, delfini e altri animali, distruggendo la pesca e l’industria del turismo della regione? Questo non è stato il primo crimine contro la natura commesso dalla Bp.
Tra gennaio del 1997 e marzo del 1998, Bp ha provocato la bellezza di 104 fuoriuscite di petrolio. Tredici lavoratori della squadra di perforazione morirono nel 1965 durante un’esplosione, 15 in un’esplosione nel 2005. Ancora nel 2005, un traghetto che trasportava lavoratori della compagnia, naufragò provocando la morte di 16 di loro. Nel 1991, la Epa (Agenzia ambientale degli stati Uniti) menzionò la Bp come l’impresa più inquinante degli Stati Uniti.
Nel 1999 la compagnia fu accusata di uso illegale di sostanze tossiche in Alaska, poi, nel 2010, di aver immesso pericolosi veleni nell’aria, in Texas. Nel luglio 2006 gli agricoltori colombiani ottennero un accordo con la Bp dopo averla accusata di ricorrere a un regime di terrore portato avanti dai paramilitari del governo colombiano che proteggevano l’oleodotto di Ocensa. Non c’è modo di far agire correttamente la Bp.
9. Monsanto
Monsanto, è l’impresa che ha creato e sostiene gli alimenti geneticamente modificati, gli ormoni della crescita per i bovini, l’avvelenamento con prodotti agrotossici. La lista di Monsanto include: la creazione dei semi “suicidi” (Terminator), brevettati allo scopo di generare piante che non producono semi, costringendo così gli agricoltori a ricomprarli ogni anno; l’istituzione di lobby che etichettino con la dicitura “libero da ormoni” il latte e il latte artificiale per neonati (questa dicitura si trova anche se il bovino ha ingerito ormoni della crescita, un comprovato agente cancerogeno); così come un’ampia gamma di violazioni ambientali e della salute umana associate all’uso dei veleni Monsanto – soprattutto l’Agente Arancio.
Tra il 1965 e il 1972 la Monsanto ha riversato illegalmente tonnellate di residui altamente tossici nelle discariche del Regno Unito. Secondo l’Agenzia per l’Ambiente, trent’anni dopo, i prodotti chimici stavano ancora contaminando le falde acquifere e l’aria.
Monsanto è nota per aggredire i propri agricoltori che invece afferma di “sostenere”, come quando denunciò un agricoltore facendolo incarcerare per aver conservato i semi del raccolto di una stagione per piantarli la stagione seguente.
10. Vale
La miniera Vale, transnazionale brasiliana presente in 38 paesi, è la più grande impresa di sfruttamento di minerali dell’America Latina e la seconda a livello mondiale. Tra i vari meriti, spicca quello di aver partecipato allo sviluppo della centrale idroelettrica di Belo Monte, situata ad Altamira, in Brasile.
Il progetto, infatti, ha colpito il fiume Xingú, la principale fonte di sostentamento della regione, causando un drastico cambiamento nel paesaggio amazzonico e nella vita di migliaia di popolazioni che vivono lungo le sponde di uno dei principali fiumi del Brasile.
A Carajás, nella regione brasiliana di Pará, numerose famiglie sono state sgomberate, hanno perso le loro case e ognuno ha qualche parente morto a causa della costruzione della linea ferroviaria realizzata dall’impresa, denunciata anche per le pessime remunerazioni e condizioni di lavoro dei propri impiegati.
Le conseguenze del modo di agire della miniera non si limitano solo al Brasile. Nella regione di Tete, in Mozambico, un’intera popolazione è stata cacciata dalla sua terra affinché l’impresa potesse portare avanti lo sfruttamento del carbone. In cambio l’impresa ha costruito un insediamento in cui le case e i servizi pubblici non sono sufficienti a garantire le condizioni basilari per lo sviluppo della popolazione.
Esistono purtroppo molte altre corporazioni che si sono guadagnate tutto il diritto di essere presenti in questa lista, come la Samsung, la Tepco, Barclays, Microsoft, Intel, Sony. Ma questo ve lo racconteremo la prossima volta.


domenica 17 febbraio 2013

LA STORIA DEL FESTIVAL DI SANREMO

Si è appena concluso il Festival 2013.


Ormai snobbato e dimenticato dai grandi cantanti, il Festival di Sanremo, da una ventina d’anni, sopravvive di... altre “cose”.







Era l'anno 1950, all'epoca la canzone italiana, era poco considerata e poco capita, dalla maggioranza del popolo, che parlava solo il dialetto, e non capiva alcuni testi neologistici e fuori tempo, contenuti appunto in alcuni brani. La canzone italiana, era però la preferita, (primeggiava) anche se per qualche tempo gli italiani, si rivolsero a generi musicali di altre nazioni. Erano gi anni delle canzoni Francesi, il trionfo mondiale di Edith Piaf con "La vie en rose" divenne la beniamina, anche di quegli ascoltatori, raffinati e colti, ai quali tutto non si riduceva nell'apprendere, una strofa, o in un ritornello. I ritmi latino-americani, ebbero nel nostro paese una grande notorietà, ricordiamo "Besame Mucho" di Velasques, Fecchi e Nati.
Le canzoni incalzavano notoriamente, mentre nuovi tipi di danza stravaganti ed esotici, tipo la "Rumba" la "Samba" erano in voga, "arginarono" per poco, ma non ci riuscirono, a mettere da parte la canzone melodica italiana. Era il periodo della concupiscente, prorompente, Rita Hayworth, con la sua "Amado mio" nel film dove interpretò Gilda.
Quando nacque l'idea del festival della canzone italiana, la città di Sanremo, era ancora mal ridotta, con tanti problemi da affrontare e risolvere. il Teatro comunale era andato distrutto dai bombardamenti, la guerra era finita da poco, però c'era la volontà di uscire dall'impedimento guerresco, era intenzionata di riprendersi il suo ruolo principale, nel campo turistico e floricolo.
In quegli anni esisteva solo la radio, ed era la protagonista, e le canzoni diffuse divennero il simbolo della nostra società.
Si racconta che il festival sia nato quasi casualmente, nell'indifferenza, generale. Fu il pubblico invece a decretarne il grande successo.
Grazie all'interessamento di alcuni personaggi, e del gestore della Casa da Gioco, Pier Busseti, e del Maestro Razzi della Rai, nacque così il -Festival di Sanremo- e fu la Radio a diffondere la sera del lunedì del 29 gennaio 51, le prime note del festival nella case italiane, trasmissione in diretta da uno dei locali più eleganti, il salone delle feste del casinò. Il presentatore Nunzio Filogamo, così annunciò il suo saluto, che divenne proverbiale, dicendo; "Cari Amici, vicini e lontani...".

Oggi il Festival è molto cambiato... Col nuovo millennio, le canzoni e i partecipanti, alla ricerca di qualche novità, propongono musiche quasi inaudite; così come i presentatori e le loro soubrette che li accompagnano. La volgarità è in crescita esponenziale e pochissime canzoni possono dirsi tali in questi ultimi 10 anni. Gli scandali più o meno voluti, sono l’unico diversivo di una manifestazione snobbata dai grandi cantanti e cantautori. Come il titolo di un famoso film con Benigni e Troisi “Non ci resta che piangere”. 
Sarà il progresso?

Con questo amletico dilemma lasciamo questo ormai nauseante appuntamento canoro annuale e con gioia passiamo senz’altro... ad altro.




lunedì 11 febbraio 2013

DARIO FO: CULTURA, QUESTA SCONOSCIUTA !!


INTERVISTA A DARIO FO, PREMIO NOBEL DELLA LETTERATURA NEL 1997 (TRATTATO NEL BLOG NEL GIUGNO 2012), CHE, IN PROCINTO DELLE ELEZIONI POLITICHE IN ITALIA, PARLA DEL “SAPERE”, DI “CULTURA”...

L'INTERVISTA INTEGRALE QUI -->   http://youtu.be/SOPawaoOESA

 "Avrete notato che il nostro governo, ormai in procinto di chiudere appena concluse le elezioni, non ha un responsabile della cultura, cioè un ministro delle arti e del sapere. Almeno, io personalmente non l’ho mai visto in alcuna manifestazione culturale e oltretutto dubito della sua esistenza, giacché non ne conosco il nome né ho visto la sua faccia. Ho chiesto intorno e nessuno mi sa dire qualcosa di lui. Che sia un fantasma?
Durante quest’ultima campagna elettorale vi sarete resi conto che nei vari interventi alla televisione o nei teatri i politici di tutti gli schieramenti non hanno mai accennato all’argomento ‘cultura’. Inoltre hanno taciuto sulla scuola, sui musei, sui monumenti d’arte che si deteriorano e spesso franano. Egualmente non hanno mai dato notizie sui teatri, gli spettacoli, i concerti, le opere musicali e soprattutto sulle accademie spesso disastrate non hanno fatto alcun accenno, tanto a proposito dei conservatori musicali che delle scuole di arte figurativa; e che dire poi del calo del 17% - diciassette percento, impressionante! - degli iscritti all’università negli ultimi dieci anni.
E che dire della sparizione dei teatri? Solo a Milano dal dopoguerra a oggi sono stati smontati e trasformati in supermercati, imprese commerciali e bancarie la bellezza di otto teatri storici e altri, in attesa di ristrutturazione, sono chiusi da anni. Calcolando le sale teatrali sparite in tutta Italia si arriva al numero di 428.
E’ un massacro.
E’ ovvio che questo rappresenta un segnale preoccupante per il nostro futuro perchè vuol dire meno rappresentazioni, meno luoghi di studio e di ricerca. E un abbassamento notevole del numero di compagnie che si esibiscono nelle nostre città.
Quando, più di mezzo secolo fa, sono salito su un palcoscenico per la prima volta, le compagnie replicavano una loro commedia o spettacolo musicale per non meno di un mese e, in caso di successo, continuavano a esibirsi per tre mesi e più. Oggi, di media, in città come Milano, Roma e Napoli, non si rimane in cartellone per più di una settimana...
Due anni fa il ministro dell’economia Tremonti, interpellato perchè spiegasse il disinteresse che mostrava lo stato verso le mostre d’arte ed il sapere, ha risposto: “Ma con la cultura non si mangia!”.
E’ la risposta più imbecille che ci si potesse aspettare.
E non va dimenticato che al contrario, noi in Italia godiamo di una grande, straordinaria fortuna: quella di possedere un gran numero di opere d’arte, musei, palazzi antichi, edifici religiosi, siti archeologici che non attendono altro che di essere resi produttivi. Secondo le stime dell’Unesco l’Italia possiede tra il 60 e il 70% del patrimonio culturale mondiale. Un corretto utilizzo di queste opere produrrebbe senz’altro un consistente utile allo stato ma è ovvio che se sono per primi i nostri politici a disinteressarsi della promozione di questi beni ci ritroveremo sempre completamente a terra. Del resto, come ha osservato Selvatore Settis (ex rettore della Normale di Pisa): siamo un Paese ignorante e regredito.
Bisogna che si cominci ad insegnare soprattutto ai giovani che il patrimonio culturale non è un inutile fardello ma è un veicolo determinante per formare le coscienze e il sapere dei nostri connazionali. D’altra parte, un paese senza cultura, non può che sfornare abitanti ottusi e senza prospettive.
Il disprezzo per la conoscenza e la ricerca da parte dei governi italiani lo misuriamo subito con la taccagneria di ‘misere elargizioni’ per sostenere manifestazioni culturali di tutti i generi.
Oggi poi, con i tagli che abbiamo subito, ci troviamo come sempre agli ultimi gradini della classifica.
Mi diceva qualche giorno fa il responsabile acquisti della Biblioteca Braidense di Milano che in tutto l’anno sono riusciti a ottenere dallo stato 70.000 euro per l’acquisto di nuovi libri. Solo nel 2006 erano 600.000. E il sindaco di Milano, la Signora Letizia Moratti, due anni fa, uscendo dal Comune - e speriamo per sempre! - ha lasciato un debito – meglio chiamarlo un buco - di 186 milioni di euro. Non si sa come e dove li abbia sprecati, ma la cifra è questa.

In ognuno dei paesi della Scandinavia si spende quattro volte di più di quanto succeda da noi. Il numero delle persone locali che va a visitare un museo, una cattedrale o partecipa a una manifestazione culturale in Italia si ritrova ancora agli ultimi posti della classifica, e la cosa è stupefacente quando si pensa che sono migliaia i borghi e le città italiane che possono offrire un gran numero di luoghi d’arte di grande valore, ma il 50% e più di quelle popolazioni non è nemmeno informata su quello che possiede.Spesso nelle Accademie di teatro delle nostre città, alla facoltà di Scenografia non esiste un teatro, ma nemmeno un palcoscenico dove ci si possa esercitare nel montare le scene e le strutture. Quando ormai vent’anni fa, siamo stati con la nostra compagnia in tournée in tutte le università più importanti degli Stati Uniti, arrivati a Yale ci siamo trovati ad allestire l’impianto scenico insieme a dei giovani tecnici, tutti studenti dell’ateneo, che non solo si diplomavano in scenografia ma ricoprivano i ruoli di elettricisti, fonici e, soprattutto, si esibivano loro stessi in commedie di repertorio antico e contemporaneo.
Credo che da noi non esista una scuola di questo genere, eppure il teatro moderno è nato proprio qui in Italia traendo le macchinerie dalla tecnologia dei cantieri navali di Venezia a partire dagli àrgani, le carrucole e le funi per montare le vele che si trasformavano in fondali. Nella Francia del XVII secolo il primo spettacolo con cambi di scena a vista fu impiantato dai nostri comici dell’arte nel teatro del Palazzo Reale di Enrico IV a Parigi dove il palcoscenico era stato smontato completamente per ricostruirci tutte le nuove strutture in uso dalla graticcia alle quinte fino agli scorrevoli per le fiancate e le scenografie.
Il pubblico che gremiva il salone del re rimase attonito osservando una scena di bosco che si trasformava, con rapidità inaudita, in un palazzo a più piani e di lì a poco, in una nave a grandezza quasi naturale che navigava fra le onde. Sulle tavole del gran palco si esibivano maschere dagli abiti sgargianti e personaggi femminili che non erano interpretati da ragazzi travestiti – come allora era in uso in tutta Europa - ma da donne vere che per dimostrare la loro autentica natura con pretesti comici spesso si spogliavano nude in scena. Che teatro!
La maschera di Arlecchino fu inventata proprio a Parigi in quegli anni e veniva interpretata da un attore che si chiamava Tristano Martinelli, di mestiere giovane notaio. Si scriveva i testi da sé e pubblicò un saggio famoso dal titolo “Composizione della Retorica”. Egualmente il capocomico della compagnia era un letterato: Francesco Andreini, scrittore e filosofo. Anche Isabella, sua moglie, bellissima... che fece innamorare di sè il re – anche lei si scriveva i testi da sola.
E numerosi altri attori erano scienziati e musici nella compagnia: questo per sfatare il luogo comune che i comici dell’arte fossero attori scavalcamontagna, guitti di bassa cultura dotati solo di un gran senso del teatro.
Scaramouche, maestro di Molière, era anche musico in grado di suonare tutti gli strumenti in voga nel ‘500. Dagli ottoni alle viole, dalle chitarre ai flauti. E naturalmente scriveva opere musicali che poi riusciva a eseguire da solo, passando da uno strumento all’altro. (grammelot)
Oggi, molti ragazzi e ragazze, si cimentano nel mestiere del commediante badando soprattutto alla dizione, alla vocalità e al gestire; e spesso dell’autore e della ragione che l’ha portato a scrivere quel testo sanno poco o niente. Ci sono sì alcune accademie di teatro come la Paolo Grassi di Milano, che si preoccupano di formare culturalmente i giovani che lì si preparano a montare in scena. Lo stesso avviene alla scuola Silvio D’Amico di Roma e all’Accademia Nico Pepe di Udine ma sono solo casi eccezionali. Bisognerebbe imparare da certe scuole d’Europa dove l’attore è condotto ad essere informato non solo su quello che va recitando ma sulla situazione politica, culturale religiosa del paese in cui si svolge l’opera e dell’autore, soprattutto, che l’aveva composta. Come si può mettere in scena e recitare l’Amleto, per esempio, se non ti accorgi che la soluzione di ambientare l’opera in Danimarca, fu soltanto uno scaltro espediente di Shakespeare per poter trattare della situazione che si viveva in Inghilterra senza cadere nelle maglie della censura? E’ ovvio che l’intento era poter trattare liberamente della corte di Elsinòre per raccontare di Londra, della sua regina, della sua corte e delle basse manovre di potere che là si orchestravano. Ma ancora bisogna essere informati sui conflitti sociali e politici del tempo, sulla cultura, sui movimenti, sulle trasformazioni, la tensione sociale e il linguaggio dei protagonisti. Inoltre, essere informati del fatto che nella corte inglese e nelle università di Cambridge e Oxford si parlava correttamente il francese e anche l’italiano e che in quel tempo si stava compiendo proprio una trasformazione culturale senza eguali. Forse è la prima volta che il nome di una regina è legato a un movimento culturale, infatti la poesia e il teatro che là si producevano venivano comunemente definitielisabettiani. Gli autori famosi che mettevano in scena ogni anno in Inghilterra commedie tragedie e satire erano più di 50. A questi bisogna aggiungere gli autori che preferivano rimanere anonimi e gli altri di cui si sono perduti i testi e anche i nomi.

Egualmente numerosi erano i teatri che rinnovavano il loro repertorio per un pubblico straordinariamente vasto, nello stesso tempo in gran numero erano gli spettacoli e le compagnie che li mettevano in scena. Tutti gli intellettuali, malgrado “l’assoluta tolleranza” dichiarata dal potere, si trovavano spesso nelle carceri a scontare anni di galera per aver offeso la dignità dei regnanti trattando delle loro malefatte sia sul piano delle appropriazione indebite che della falsa morale che esprimevano.Fra questi c’erano Marlowe, Johnson e Shakespeare al quale, in seguito alla messa in scena di Misura per misura, il re Giacomo I ordinò di non scrivere più alcun testo di teatro se non voleva rischiare la vita.
Ecco perchè il grande William visse gli ultimi sei anni della propria esistenza senza produrre più una commedia.
In questi anni mi capita spesso di incontrarmi con ragazzi italiani e stranieri che studiano nelle varie accademie. A brevi intervalli vado con Franca anche da mio figlio Jacopo ad Alcatraz, in Umbria, dove gestisce una libera università e lì teniamo insieme veri e propri seminari per giovani allievi di teatro, ragazzi e ragazze: come ci succederà fra poco, a metà marzo. La tecnica di insegnamento di cui ci serviamo va dall’improvvisazione di monologhi e dialoghi alla scrittura collettiva di testi e agli esercizi di pantomima; leggiamo recitando insieme anche brani di commedie classiche e racconti di famosi poeti e narratori da quelli medievali ai fabulatori dei giorni nostri e, per ogni autore, io racconto brani che testimoniano successi e sventure a lui capitate, compresi gli incontri con i personaggi più noti del loro tempo. La parte però che penso sia più interessante - non solo per loro, gli allievi, ma anche per noi che insegniamo – sono i dibattiti su un testo o un evento capitato oggi o appena ieri, un fatto di cronaca o della politica. E, quindi, esercizio importantissimo a nostro avviso è quello di raccontare loro la nostra vita – anche con i particolari più scabrosi - e ancora invitarli a testimoniarci le loro esperienze, compresi sogni e progetti che vorrebbero realizzare.
E a proposito del coinvolgimento c’è un particolare atteggiamento che esprimono molti intellettuali che si atteggiano ad eruditi; mi capita spesso di sobbalzare ascoltandoli pronunciare sentenze come questa: “L’arte deve essere al di sopra delle parti e soprattutto chi fa teatro deve evitare ogni coinvolgimento politico e morale di sorta nel suo operare”.
Costoro dimostrano di vivere immersi in un beato clima di presunzione e di ignoranza soprattutto riguardo alla struttura scenica delle opere teatrali. Basta dare una sbirciata alla storia del teatro cominciando dai greci per scoprire che tutte le antiche opere satiriche che ci sono pervenute a cominciare da Aristofane a finire con Luciano di Samosata hanno come base degli avvenimenti raccontati una profonda drammaticità politica. L’esempio più convincente è senz’altro quello de Le donne al parlamento scritto, recitato e cantato da Aristofane e dalla sua compagnia. La commedia prende l’avvio da una strage subita dall’esercito ateniese nella guerra contro la città di Siracusa: gli ateniesi vengono battuti e nella ritirata via mare le loro navi in fuga vengono affondate e i pochi uomini che tentano di salvarsi a nuoto saranno trafitti uno ad uno dagli arcieri siculi. Le spose e le madri di Atene preso atto che nella città fra i maschi erano rimasti soltanto bambini e vecchi, decisero di salire tutte insieme al Parlamento e creare un governo di sole donne. “Di certo – gridavano a gran voce - saremo in grado di fare meglio di loro, dei nostri uomini, che hanno portato se stessi alla morte e la città alla rovina.
La prima legge che noi voteremo all’unanimità sarà quella che delibera che tutti i possedimenti ed il denaro saranno messi in comune e amministrati da noi donne
."
Ogni guerra verrà bandita e, cacciato dalla città ogni abitante che pretenda la creazione di una difesa militare. “Certo - disse una delle donne più ascoltate - si comincia sempre col preoccuparsi della difesa, poi si crea un nemico e si invade la sua città prima che lui faccia egualmente con la nostra"... e ZAC! siamo di nuovo alla strage! Chi sosterrà il motto che ‘dobbiamo difendere la pace quindi prepariamoci alla guerra’, non avrà più diritto di parola nei pubblici dibattiti per tutta la sua vita. L’atto fondante di tutta la nostra società sarà l’amore. Sceglietevi la sposa o lo sposo che volete ma senza corruzione in denaro e altre truffalderie.
Ognuno dovrà saper leggere scrivere e far di conto, a cominciare dalla più tenera età...
Il canto e la danza saranno parte fondamentale della nostra vita, danzeremo nei matrimoni, nei battesimi e perfino nei funerali... ognuno imbracci il proprio strumento e guai chi stona!” (grammelot cantato)
Quello che abbiamo registrato non tenetevelo per voi, passate parola !

giovedì 7 febbraio 2013

IL CARNEVALE IN ITALIA: I PIÙ FAMOSI, VIAREGGIO

IN PIENO CLIMA DI CARNEVALE VEDIAMO QUALI SONO I PIÙ FAMOSI IN ITALIA. MOLTI CREDONO CHE SIA QUELLO DI VENEZIA, MA POPOLARMENTE, IL PIÙ SEGUITO, È SENZ'ALTRO QUELLO DI VIAREGGIO, IN TOSCANA. MA VEDIAMOLI IN DETTAGLIO.









ll Carnevale di Venezia è tra i più famosi di tutto il mondo ed è un appuntamento internazionale la cui importanza si rinnova di anno in anno attraverso la partecipazione di migliaia di persone che invadono calli e campielli, in una dimensione fantastica che solo Venezia può offrire. Vivere il Carnevale di Venezia significa quindi partecipare alla "Festa" e ai suoi riti, come il celebre Volo dell'Angelo o la Festa del Gentil Foresto. 

Il Carnevale di Cento trova le sue origini nel XVII secolo; ha mantenuto un carattere locale fino agli anni '90, quando in seguito al gemellaggio con Rio de Janeiro - per stile di carri, belle ragazze e divertimenti - è diventato una manifestazione conosciuta a livello italiano ed europeo, capace di attirare molti visitatori. Famosissimi i testimonial di questo carnevale: dai personaggi del mondo della cultura alla politica, dallo spettacolo allo sport.

Il Carnevale di Foiano della Chiana (Arezzo) è considerato il più antico carnevale d'Italia, con notizie risalenti al 1539; giunto con il 2011 alla 472esima edizione, rinnova la competizione dei quattro grandi carri allegorici appartenenti ai cantieri di Azzurri, Bombolo, Nottambuli e Rustici; il borgo di Foiano è infatti suddiviso in quattro "Cantieri" che durante l'anno lavorano ciascuno su un carro carnevalesco.

Carnevale di Ivrea 
Il Carnevale di Ivrea trae la sua origine dalla ribellione ad un tiranno malvagio da parte di una giovane, Violetta, seguita poi dall'intera cittadinanza. La rivolta rivive ogni anno a Carnevale nella Battaglia delle Arance, una lotta scatenata a suon di lanci di succose arance.




Carnevale di Viareggio
Il Carnevale di Viareggio è il più famoso per la sfilata dei carri, realizzati in cartapesta, accompagnati da gruppi in maschera che si muovono in corteo lungo il viale principale. I Viareggini iniziarono a festeggiare in questo modo il Carnevale verso la fine dell'800, con carrozze colme di fiori e di gente mascherata.

Centomila persone hanno assistito alla prima sfilata di carri allegorici a Viareggio; da allora, tradizione vuole che siano i politici i personaggi presi più di mira negli allestimenti dei giganteschi carri.

LE ORIGINI CARNEVALE DI VIAREGGIO

Agli inizi degli anni Settanta dell'Ottocento, Viareggio, undicimila abitanti, si estendeva su una superficie edificata dal Canale Burlamacca alla Via Mazzini, allora detta Via di Confine.
Da mezzo secolo città per decreto (1820) di Maria Luisa Duchessa di Lucca, Viareggio era divenuta Comune dell'Italia Unita nel 1870, subendo la perdita traumatica della giurisdizione su Massarosa. L'abitato si diradava su un ampio territorio agricolo appena bonificato, sottratto alle paludi e alla malaria. Al di là di una macchia di giovani pini si stendeva un vasto litorale sabbioso.

La duplice vocazione, portuale-cantieristica e balneare-turistica della città era appena iniziata. La prima darsena era stata escavata da un anno rispetto all'elezione di Viareggio a città, nel 1819, e il porto-canale era contrassegnato da un molo su palafitte, lungo 190 metri. I cantieri varavano in media 150 tonnellate l'anno di naviglio. I primi bagni pubblici, il Dori e il Nereo, erano stati costruiti nel 1827, ma da allora erano trascorsi trent'anni prima di arrivare alla costruzione degli stabilimenti balneari: il Felice nel 1860, il Nettuno nel 1865. Negli anni Settanta il Balena e il Quilghini erano in fase costruttiva. Capofila degli edifici lungo il litorale era il Teatro Alhambra.

La Via Foscolo, allora Via Nuova, e i Giardini D'Azeglio, che contenevano un ippodromo e s'aprivano davanti al Palazzo Paolina, eretto nel 1822, arginavano l'espansione urbanistica verso il litorale. Lungo la patronimica Via Regia, arteria di transito e di commercio, che sfociava in Piazza Grande, luogo di ritrovo e di arengo, sorgevano i palazzi dell'aristocrazia ricca di Lucca. Dal 1822 si affacciava in Piazza Grande il troncone della Reggia che Maria Luisa aveva fatto progettare dall'architetto Lorenzo Nottolini. I lavori erano stati bloccati da Carlo Ludovico nel 1824. Nel 1827 il duca aveva fatto dono al Comune della Reggia incompiuta, poi "ridotta ad uso di Casinò" nel 1834. Sulla Piazza Grande si ergeva anche il Teatro Pacini, costruito da Giovanni Pacini, musicista siciliano, giunto a Viareggio da Roma al seguito della Corte di Giuseppina Bonaparte.

1873: in quest'ambito, dei Teatro Pacini e dei Casinò comunale, della Piazza Grande e della Via Regia, ebbero origine i corsi mascherati di Viareggio. Da anni immemorabili era invalso in Viareggio un certo modo di festeggiare il Carnevale. Dai tempi dei Ducato di Lucca sicuramente: il Governo regalava al popolo una giornata trasgressiva, il Martedì Grasso, secondo la tradizione "padroni e servi a banchettare insieme", e i Viareggini erano soliti designare a governatore della città per quel giorno un mattocchio "in chiodara, scroi e ciarpone rosso in vita" soprannominato provocatoriamente Puppino, in contrapposizione ai "pupponi" dell'Amministrazione ducale.

1873: la proposta di inventare un corteo di carrozze, colme di fiori e cariche di maschere, fu discussa dai frequentatori del Caffè del Casinò, giovanotti bene, capiscarichi appartenenti a famiglie che di certo avevano la carrozza nel cortile del palazzo. Basta coi veglioni al Teatro Pacini o nei saloni del Casinò.
0 piuttosto: oltre ai veglioni al chiuso, balli all'aperto, nelle strade. L'idea rimbalzò nelle pagine della "Gazzetta del popolo", giornale che aveva iniziato le pubblicazioni appena un anno prima. Fu scelta la Via Regia e il "corteo conquistò subito il popolo che negli anni immediatamente successivi mischierà alle carrozze dei signori i barrocci e i carri agricoli.

CARNEVALE DI VIAREGGIO - I CARRI

Dal corso delle carrozze del 1873 in Via Regia, prima di arrivare al corso dei carri allegorici, passò un decennio.

1883: il prototipo dei carri allegorici s'intitolò "I quattro mori" e fu costruito dal personale della Regia Marina, Distaccamento di Viareggio. Fu la fedele riproduzione in scala, minore ma non di troppo, del monumento livornese a Ferdinando II con i quattro schiavi alla base, opera di Pietro Tacca. Fu realizzato con gesso, scagliola e colla e fu trasportato in Via Regia su un pianale del marmo, noleggiato a Pietrasanta, insieme con dei buoi coperti da una gualdrappa. Il bozzetto è conservato al Centro Documentario Storico Comunale.

1885: Al Centro Storico sono visibili anche i bozzetti dei carri "Iltrionfo dei fiammiferi" e "Il trionfo della bicicletta", costruiti per esaltare due novità del tempo: gli "svedesi" al fosforo e il biciclo con moltiplica e pedali.

1887: Al famoso maestro d'ascia viareggino Natino Celli fu commissionato un carro elettorale dal candidato al Parlamento nel Circondario di Pietrasanta, Vito Camillo Ventura Messía de Prado, principe di Carovigno: un triestino eccentrico, giunto a Viareggio alla ricerca di fortune politiche. Natino, coadiuvato dalle maestranze del suo cantiere, costruì una torre dalla cui sommità le maschere gettavano sulla folla monete di cartone argentato. Il Carovigno, con la trovata pubblicitaria del carro elettorale, divenne deputato, ma non fu ammesso in Parlamento per l'età inferiore ai trent'anni. Col carro politico del Carovigno, in Via Regìa sfilarono altri due carri, secondo il ricordo che Raffaello Celli, figlio di Natino, ha affidato al libro "Conl'ascia e con la vela". Le Officine Estensi costruirono un treno, "vero" in tutto, fuor che nelle proporzioni; la Fabbrica dei Laveggiai montò un bancone con due torni a pedali e delle tinozze per l'impasto. Una carrozza trasportò in corso tre pescatori con la lenza; nell'amo, un salacchino per far "abboccare" la gente. Titolo "La pesca degl'imbecilli". Fortunato Celli ha lasciato questa testimonianza sul modo di allestire carrozze e carri in Via Regìa: "Lo scopo era di alludere e mettere in risalto e in ridicolo qualche personaggio che teneva le redini del paese, per primo il sindaco".

1899: Dell'ultimo anno del secolo scorso esiste traccia di un carro di natura politica, intitolato "L'alleanza italo-francese". Fu una satira diretta a colpire il furbastro rapporto tra Italia e Francia sulla navigazione nel Mediterraneo, malgrado gli opposti fronti di intesa e alleanza in Europa.

1900: Nel primo corso mascherato del nuovo secolo i carri politici furono due. I titoli: "Il disarmo" e "Le topiche del Governo in Cina". Col primo, si puntò a colpire il neocolonialismo in Asia dopo l'abbandono di quello in Africa; col secondo, la partecipazione italiana, con gli stati colosso d'Europa, alla guerra contro la Cina, a fianco della Russia. Lo stesso anno fu allestito un carro chiamato "Carro-réclame" che illustrava la sfida lanciata da Viareggio a Nizza per il Carnevale e per la balneazione. Abbandonata la Via Regia, il corso si trasferì sul Viale Margherita nel 1905.

1905: Protagoniste del corso sui Viali a mare furono le automobili. Alla guida di una berlina, trainata da un asino, c'era una donna. Titolo: "Lasignora al volante". Significato: "Donna al volante, pericolo costante". Fra le automobili e le carrozze, tre i carri raffiguranti un cocchio romano, una palma, il profilo delle Apuane. I carri di gesso e di scagliola sui pianali pietrasantini tirati da una o più coppie di buoi, s'ispirarono alla scultura neoclassica di moda agli inizi del Novecento. Nella costruzione si cimentarono scultori anche di prestigio. Qualche nome: Mario Norfini di Firenze, Giovanni Lombardi di Milano, Raffaello Tolomei e Domenico Ghiselli, versiliesi. Di massima, il costruttore forgiava uno scheletro di cannicci e fil di ferro che poi ricopriva di iuta e di carta impastate nel gesso e nella scagliola. Ne usciva un impasto da modellare. Il prodotto risultava pesante. Questa sorta di "monumenti" riflettevano solitamente un'ispirazione mitologica esagerata, spesso carica più di retorica che di ironia. Alcuni bozzetti di questi carri sono conservati al Centro Storico Comunale:

1906: "Il trionfo del Carnevale" e "La dea dei fiori".

1907: "Il trionfo dell'agricoltura".

1908: "La bellezza vince la forza".

1909: Il carro "I burattini meccanici" è il primo esempio, per quanto la documentazione tramanda, di costruzione animata. Si presentò in corso come una composizione di maschere statiche che, al segnale di un campanello, si animava a scatti come un complesso di robot. Altro suono, altro stop e così via... L'ideatore fu Giuseppe Giorgi, soprannominato Noce.

1910: Si conosce il bozzetto del carro: "La coppa dei fiori".

1911: Del corso esiste al Centro Storico la documentazione relativa ad almeno sette carri. Al carro "Il trionfo della vita" dello scultore Domenico Ghiselli fornì un contributo anche il pittore Lorenzo Viani con un bassorilievo sui quattro lati del pianale.
Dopo la prima guerra mondiale, il corso mantenne un legame con gli antichi carri -monumentali", affidando, per il primo corso del 1921, allo scultore Lelio De Ranieri la composizione di un Nettuno ai remi di un patino.

1921: Il carro-evento fu portato in corso dal Noce e la grande sorpresa fu l'orchestra, indispensabile ad un ballo nell'aia per le nozze di un contadino lucchese. Il titolo: "Le nozze d'oro di Tonin di Burio alla corte del Pinaccio in quel di Lambari".

1923: Arrivò in corso il primo mascherone movimentato. Due occhi, tolti a una bambola, rotearono nel volto di un Pierrot, costruito da Umberto Gianpieri.

1924: Fu scoperta la carta a calco per la realizzazione dei mascheroni. Una lunga serie di esperimenti negativi precedette l'invenzione. La carta, molto spessa, utilizzata sulle forme di creta, non reggeva all'essìcazione: cedeva, crepava, si sbriciolava. La prima mossa azzeccata fu il rivestimento di gesso sulle forme di creta; lo strato di gesso, rappreso, si staccò con facilità e formò uno stampo al negativo. La seconda mossa fu la scelta della carta di giornale, da incollare a strati all'interno degli stampi di gesso. La terza fu l'essicazione lenta, su dei bracieri, della carta "calcata" strato dopo strato. Il risultato fu una forma di carta sonante, leggera, solida. Non restò che assemblare i pezzi ricavati per ottenere la riproduzione del modello di creta.

1925: Il primo carro coi mascheroni di carta a calco fu "I tre cavalieri del Carnevale" dì Antonio D'Arliano.

1927: Irruppero in corso le cavalcate di... indiani, cosacchi, ussari, butteri. Le cavalcate furono riprese anche nel 1928 e nel 1929.
Con l'avvento della carta a calco, i carri aumentarono di mole. Il dinamismo dei mascheroni derivava, ed ancor oggi scaturisce, dalla inventività di una meccanica povera, fatta di leve, pulegge, carrucole, ruote, guide a coulisse, molle, molloni, elastici, tiranti, giunti, martinetti, argani, snodi cardanici, forcelle, pistoni ed ogni altro marchingegno rudimentale per delle manovre a braccia. I carri al loro interno celano una folla di operatori che agisce a tempo di musica, imprimendo un ritmo ai gesti, i guizzi, i sussulti dei mascheroni. Il tutto al comando dei costruttore-regista, che usa dei fischietti, dei campanelli e, da ultimo, i walkie-talkie. Dentro ogni carro rivive l'antico cantiere marittimo degli alberai, bozzellai, falegnami, fabbri che forniva alle velature il trinchetto, la mezzana, la maestra, i pennoni, le mazze, i picchi, i bompressi, le scocche, i bracci. Motorizzazione, elettronica, telematica 
sono rifiutate dai costruttori e nel ventre dei carri si perpetua l'impegno inventivo che dette alla marineria viareggina i barcobestia. Nei capannoni, del resto, si fa largo uso della terminologia marinara; il carro è suddiviso in poppa e prua e gli spazi son chiamati plancia, coperta, ponte, coffa. La portata dei carri è misurata a stazze e il loro movimento agli orecchi dei costruttori è beccheggio, rollio, scarroccio; i carri virano, ormeggiano, vanno in alaggio e la loro uscita dai capannoni è il varo. Ciurma è definita la gente che assicura al carro i movimenti, le luci, i suoni.

1930: Il carro "Il prestigiatore" di Antonio D'Arliano portò la novità dei colori cangianti della carta a calco.
Di colpo: da rosso-oro a verde-oro. Testimonianza di D'Arliano: "La ciurma era più numerosa delle maschere esterne".

1934: Cinque carri furono costruiti su commissione dall'OND, sezioni di Lucca, Pisa, Livorno, Arezzo, Firenze.

1935: Il carro "Il cavallo di Troia", costruito dall'OND, sostituì la carta a calco col legno compensato, realizzando forme cubiste sotto la suggestione dell'arte futurista in voga. L'ultimo posto in classifica del carro sconsigliò, in futuro, i costruttori a usare materiali diversi dalla carta a calco. Del resto, per disposizione del Comitato, la carta a calco sui carri divenne materiale d'obbligo.

1937: Il carro "Il Decamerone" di Guido Lippi, ideato da Uberto Bonetti, rappresentò il Carnevale d'Italia al Carnevale internazionale di Monaco di Baviera. Su quattordici carri piccoli, dieci trattarono un tema infantile e furono detti "Lillipuziani".

1940: All'ultimo corso anteguerra presero parte coi carri grandi Alfredo Pardini col fratello Michele, Antonio D'Arliano, Carlo e Francesco Francesconi, Guido Lippi, Michelangelo Marcucci, Rolando Morescalchi.
Negli Anni Venti e Trenta, i carri grandi furono costruiti anche da Guido Baroni, Michele Pescaglini, Alighiero Cattani, tanto per ricordare i più impegnati.
Col ritorno del corso mascherato nel dopoguerra i carri riadottarono la tecnica della carta a calco.

1946: Non tutti i costruttori degli Anni Trenta furono in grado di rispondere all'appello del primo corso mascherato del dopoguerra. Ne arrivarono di nuovi: Ademaro Musetti, Nilo Lenci, Sergio Baroni, matricole che lasceranno un segno...

1947: Due carri, "Il teatro della vita" e "Saggio governo", furono firmati rispettivamente da Renato Santini ed Eugenio Pardini, che, lasciati i capannoni del Carnevale, trarranno dalla pittura sostentamento e successo. Come Alfredo Catarsini, Danilo Di Prete che aveva firmato un carro grande l'anno prima. In Brasile Di Prete raggiungerà una grande fama.

1948: Alfredo Morescalchi costruì l'iniziale "Complesso di apertura". Sergio Baroni realizzò il suo primo carro da solo; Carlo Bomberini pure.

1949: Da cinque dei triennio precedente, i carri balzarono a dieci e ognuno fu "adottato" da un rione. Fra i nuovi costruttori destinati a dare al Carnevale molti carri grandi, si presentarono Carlo Vannucci, Fabio Romani e soprattutto Silvano Avanzini e Arnaldo Galli, in coppia.

1950: Fu costituito il duo Francesconi-Barsella (Carlo Francesconi e Sergio Barsella) costruttore, fino al 1974, di grandi carri di successo.

1951: Si separò la coppia Avanzini-Galli. Avanzini scelse come partner Francesco Francesconi. Si formarono anche le coppie Musetti-Pardini (Ademaro Musetti e Michele Pardini) e Vannucci-Bertuccelli (Carlo Vannucci e Sandro Bertuccelli). La prima durò fino al 1958; la seconda fino al 1960.

1952: Fra i costruttori dei grandi carri apparve Beppe Domenici.

1953: Si formò la coppia Domenici-Galli (Beppe Domenici-Arnaldo Galli) che lavorò solo per un anno.

1954: A operare con Renato Santini entrò la coppia Lenci-Palmerini (Nilo Lenei e Giulio Palmerini), che poi si rese autonoma. I carri piccoli furono trasformati in complessi: articolazione di più strutture su uno stesso tema.

1956: "Tempodi mambo" fu l'ultimo carro di Renato Santini; s'ispirò al ballo di Sofia Loren l'anno prima all'Esplanade.

1958: Il primo carro costruito da solo da Silvano Avanzini fu "Anche laggiù". Ademaro Musetti pure realizzò, per la prima volta da sè un carro: "Carnevale si pavoneggia".

1959: Alfredo Pardini, con il carro "La danza delle ore", portò in corso un orologio a colori cangianti. Due carri dell'anno prima, "Miss Universo" di Antonio D'Arliano e "L'allegro satellite" di Lenci-Palmerini rappresentarono l'Italia a Estoril in Portogallo in una Triangolare di carri carnevaleschi Portogallo-Spagna-ltalia. Si piazzarono al primo e al secondo posto davanti a un carro spagnolo progettato da Salvator Dalì.
Con gli Anni Sessanta il Comitato Carnevale, in accordo con l'Avac, Associazione dei costruttori, introdusse
nella classifica dei carri il meccanismo di passaggio di categoria dei costruttori: promozione dai piccoli ai grandi carri, retrocessione dai grandi ai piccoli carri. Il metodo adottato fu quello applicato alle serie dei Campionato di calcio. Al termine di un biennio, la somma di due punteggi avrebbe determinato i promossi e i retrocessi.

1960: La morte in gennaio di Fred Buscaglione mandò a monte l'allestimento del carro "Eri piccola" di Lenei-Palmerini. La coppia confezionò a tempo di record il carro "Hello Jolm!".

1961: Nilo Lenci iniziò a costruire i carri da solo. La classifica biennale dei complessi fu vinta da Arnaldo Galli, che acquisì il diritto di costruire un carro. Di contro, la retrocessione investì Nilo Lenci, che impugnò la prima classifica del biennio, invocando, come attenuante, la circostanza che lo aveva costretto a realizzare "Hello John!", finito all'ultimo posto.

1962: Il numero dei carri fu portato da otto a nove: nella prima categoria restò Nilo Lenci ed entrò Arnaldo Galli.

1963: Il primo premio dei grandi carri non fu assegnato. Il secondo in classifica "Le scimmie stanno a guardare" di Arnaldo Galli fu il primo, in assoluto, a essere costruito su due piani, completamente libero delle masse voluminose dette "paretoni". Col carro 'Fatiche mie venitemi dietro" Alfredo Pardini si congedò dal Carnevale.

1964: A lasciare il Carnevale fu la volta di Antonio D'Arliano; il suo ultimo carro, "La... casta azzurra" fu dedicato a Nizza, nel contesto dei corso a tema unico, "Il Carnevale nel mondo", per cui ogni carro illustrò una città nota per le feste di Carnevale. Per effetto della classifica biennale, Renato Galli, fratello di Arnaldo, costruì il primo carro grande. Non ci furono retrocessioni. Silvano Avanzini dette forfait e i carri da dieci ritornarono a otto, uno per capannone. I complessi furono trasformati in "corteggi" di supporto ai carri grandi.

1965: Al candidato alla promozione, Giovanni Lazzarini, fu negato un capannone. Col rientro di Silvano Avanzini, l'AVAC difese l'equazione otto carri, otto capannoni.
Con l'abbandono di Alfredo Pardini e di Antonio D'Arliano, i due "grandi" dei Carnevale che avevano diviso la città su due fronti di passionale tifoseria, si aprì fra gli epigoni la corsa a subentrare nelle simpatie dei Viareggini.

1966: A compenso dell'impossibilità di costruire un grande carro, il Comitato assegnò a Giovanni Lazzarini il compito di realizzare un complesso speciale fuori concorso, "Donne e motori". Il risultato straordinario raggiunto dal Lazzarini aprì la concezione del tutto innovativa di portare in corso un'allegoria carnevalesca, composta da una "collana" di piccoli carri per un soggetto unico.

1967: Cadde l'opposizione dell'Avac ad aumentare il numero dei carri, che salirono a nove dopo che l'Aarv, d'intesa col Comitato, inviò ai costruttori un'ingiunzione di sfratto a seguito della liberalizzazione del concorso per i carri. Fra i non associati all'Avac ottenne il benestare la domanda di Beppe Domenici. Al nono carro furono sacrificati quattro complessi. Il Domenici, durante la lavorazione, per l'obbligo di rispettare un impegno all'estero, lasciò che il carro "Premio Nobel per la pace", fosse terminato dalla moglie Ivana Barsotti. Alla "prima donna" costruttrice di un carro dette una mano il "pensionato"D'Arliano.

1968: Fra i costruttori dei grandi carri entrò Giovanni Lazzarini affiancato da Oreste Lazzari e le costruzioni salirono a dieci. Il meccanísmo della promozione e della retrocessione fu rispettato a metà.

LE MASCHERATE DEL CARNEVALE DI VIAREGGIO

          L'immancabile Berlusconi

Un primo sfogo di autentica satira politica con le mascherate in gruppo, il corso lo ebbe assai più tardi che coi carri e coi complessi. Ci volle l'arrivo del "Sessantotto".

In passato, sia le mascherate che le maschere privilegiarono i fatti di costume, i modi di dire, i giochi di parole, il divertimento fine a se stesso.

1969: Con "Western all'italiana" Vittorio Lippi presentò la contestazione come un vincente "mucchio selvaggio" di pistoleros. Angelo Romani in "Come la cucincremo?" immaginò la colomba della pace pronta a divenire ricetta per più cuochi. Fabio Romani con "Anonima omertà- accusò l'italiano che non legge la ... legge.

1973: Dopo un triennio senza una mascherata politica, per il centenario Fabio Romani, con "Chi è che tira la carretta", presentò una sequenza di operai reclutati come soldati e Giovanni Pardini, in "L'italiano ottimista", accodò a un irriducibile (o cieco) utopista una sequenza di guai.

1974: Nei "soliti noti" a capo dei governi Angelo Romani, sotto il titolo di "I camaleonti", segnalò degli imitatori di Stalin, Hitler, Mussolini... . Fabio Romani ne "I padroni del vapore", segnalò gli sceicchi del petrolio.

1975: Un primo esempio di satira autentica venne da Paolo Lazzari con "Il rilancio dell'esportazione": fascisti, generali, preti, politicanti, poliziotti da spedire fuori d'Italia, imballati da Burlamacco. Con "Giochi d'equilibrio" Guidubaldo Francesconi travestì gl'italiani da foche, sul naso la pensione, lo stipendio, il salario... Gli fece eco Giovanni Pardini con "La stangata", cioè la cassa integrazione. Ne "I grandi bugiardi" Angelo Romani, in coda ai cacciatori e ai pescatori, fece sfilare i politici e i giornalisti.

1976: Con "I mangiatutto" Angelo Romani anticipò l'esistenza degli ingordi negli enti pubblici: Cassa del Mezzogiorno, Rai, Anas... Giovanni Pardini in "Fantasmi", l'uno dietro l'altro, con un aspetto orribilmente caricaturato, portò in corso Nerone, Napoleone, Stalin, Hitler, Mussolini.

1977: Furono tre le mascherate politiche. Tre su cinque. "Lo spaventapasseri" di Paolo Lazzari: il proletariato che tiene alla larga dal campo Italia famelici uccellacci. "Ilcollasso" di Carlo Bomberini: medici inaffidabili al capezzale dell'Italia in coma. "La ristangata" di Angelo Romani e Giovanni Mangini: il rincaro generale dei prezzi che fa salire il "mercurio" della... scala mobile.

1978: Due mascherate per due denunce: "Prigioni senza sbarre" di Angelo Romani, per la serie come è facile lasciare il carcere in Italia" e "I dicasteri" di Giovanni Pardini per la regola non scritta, ma praticata, dei "governanti manovrati dai partiti".

Dopo il corso del 1979, dedicato alla nuova ed unica esperienza dei Gruppi (complesso più mascherata) - sfilarono comunque le mascherate dei rioni -, con gli Anni Ottanta riprese la tradizione delle mascherate in gruppo.

1980: "Italia,bel paese" di Angelo Romani e Giovanni Maggini fu un accostamento dello Stato italiano al "BelPaese" formaggio, divorato dai topi. Guidubaldo Francesconi in "La repubblica di legno" dette ai governanti d'Italia il lungo naso di Pinocchio.

1981: Gilbert Lebigre e Corinne Roger, in "Le colonne dell'avvenire", denunciarono la governabilità, ovunque... garantita da decrepiti, logori dinosauri della politica. Roberto e Sabrina Galli in "Italy zoo", chiusero nelle gabbie i governanti, trasformati in bestioni da esposizione. Carlo Bomberini con "Vampiria Spa" fondò la società dei salassatori; fra i soci l'Iva, l'Irpef, l'Ilor e via... sigle dicendo.

1982: Con "Ogni moneta ha la sua poltrona", Roberto Musetti assegnò una scala di valori allo SME, facendo accomodare ogni moneta su poltrone, sedie, sgabelli secondo il rapporto di cambio col dollaro. Ne "Gli spaventapasseri" Nilo Lenci individuò i piduisti; ne "I bronzi di Riace" Carlo Bomberini segnalò politici, facce di bronzo; in "Sagra gastronomica" Piero Ghilarducci indicò i partiti, ingordi e avidi.

1983: Le mascherate ritornarono a essere numerose, nove. Ma una soltanto toccò il tema politico: "La vispa Teresa" di Roberto setti con l'Italia gentil fanciulletta.

1984: Dieci le mascherate. Due le politiche "Uccelli migratori" di Giovanni Pardi gabbie di politicanti, pretonzoli, soldatuco da lanciare in volo verso altre sponde e---M sica maestro- di Piero Farnocchia, u banda maldiretta con Craxi, De Mita, Spadolini e via elencando suonatori.

1985: Su tredici mascherate, di cui, tre fuori concorso, una soltanto ebbe un chiaro riferimento alla politica: "I giullari" di Luigi Miliani, che assegnò ai partiti il ruolo di "rigoletti" beffati dai "duchi" dell'industria e della finanza.

1986: Con "Andiamo a lavorare", Emilio Cinquini presentò i politici italiani come de boia con la mannaia, pronti a tagliar teste e con "Premiamo quel bottone", Rossella Disposito li legò a dei missili da lanciare nell'ignoto. L' ultimo Comitato lasciò alla Fondazione l'eredità di un ragguardevole numero di costruttori di mascherate, allievi della Scuola della cartapesta. Non tutti, anzi pochi, versati alla satira politica.

1987: Di quattordici mascherate una appena si presentò in corso con un soggetto politico: "Le collegiali" di Carlo e Giorgio Bomberini che, al seguito dell'istitutrice Nilde Jotti, mise in fila gli onorevoli, i più noti, i leader.

1988: Su undici mascherate due s'interessarono di razzismo e di servilismo: "Scacco al re" di Luigi Miliani, con il re bianco vinto dai pedoni neri e "Il mistero della sfinge" di Roberto Musetti che illustrò come il potere fosse generato dagli adulatori.

1989: Una mascherata politica soltanto, su quattordici: "Sedute di gabinetto" di Piero Ghilarducci, che modellò delle teste raffiguranti i ministri in carica, scaricate... nel water.

1990: Con "Nuovi idoli" Rossella Disposito trasformò i capipartito in totem coloratissimi. Giampiero Ghiselli in "I cavalieri della tavola gioconda" illustrò un duello medioevale in Parlamento per la conquista di Cicciolina, dama e regina; fra i duellanti anche la... Jotti.

1991: La guerra nell'Iraq fu evocata da Piero Ghilarducci in "A veglia nel Golfo": il Ministro degli Esteri De Michelis con Reagan e Gorbaciov fra gli sceicchi del petrolio. Con "Gladio, operazione merenda" Giorgio Bomberini armò di spiedo Cossiga, in giacca ed elmetto mimetici, seguito da un Occhetto spaventato e un Andreotti equivoco. In "Anche i ricchi piangono", Umberto Cinquini mise in fila Agnelli e Berlusconi, Baudo e Costanzo in attesa, davanti a un wc, occupato da Andreotti. Ne "Lagrande svendita" Riccardo Luchini portò al mercato i busti di Marx, Lenin, Stalin, Mao, le divise, le insegne, le bandiere dei comunismo.

1992: Riccardo Luchini in ---Tuttigli uomini del Presidente-, pose Cossiga al centro di un bersaglio; a sparare, Andreotti, Forlani, De Mita ed altri. Marco Dolfi in "Colombo 2000" dette al navigatore genovese le sembianze di De Michelis per una riscoperta dell'America del cinema e della Tv.

1993: La satira politica nelle mascherate ebbe un'impennata: sette su tredici. Umberto Bossi si ritrovò nelle vesti di Pietro l'eremita, in "Ghe pensi mi" di Giorgio Bomberini e d Goffredo di Buglione in "La lega li lega" di Riccardo Luchini. Unico il tema: la Crociata contro gl'infedeli, i vecchi capipartito. Il fisco fu l'ispiratore di "Gioco pesante" di Luigi Miliani e Maria Lami che caricarono i cittadini-cariatidi di pesanti tasse, e di "Spremute all'italiana" di Roberto Musetti che inscenò un corteo di donne magre, così ridotte dall'entità dei tributi indiretti. Con "Tagli alle spese" Piero Ghilarducci escogitò l'eliminazione, a forbiciate, dei personaggi invisi, stantii, da distruggere. In "Canzoni di Stato" Marco Dolfi assegnò ai politici un aspetto da topi e da papere; a tutti, non solo ad Amato ed Occhetto. In "Operazione mani pulite" Marzia Etna inventò la "Banda dei guanti gialli", composta da diavoli truccati da angioletti.

 (tratto da versilia.it)