venerdì 22 febbraio 2013

150 ANNI DI LINGUA ITALIANA: DALLE ORIGINI AD OGGI


Manzoni e l'unità della lingua


DA DANTE ALIGHIERI AD ALESSANDRO MANZONI, LA LINGUA ITALIANA SI È TRASFORMATA PROFONDAMENTE: VEDIAMO COME E PERCHÉ IL FIORENTINO DI DANTE È STATO "ELETTO", GRAZIE AL MANZONI, COME LINGUA UFFICIALE DEL "BELPAESE".





Nella storia della letteratura italiana la cosiddetta "questione della lingua" ha reso quest'ultima un tema di dibattito sempre attuale ed interessante, che ha assistito nel corso dei secoli agli innumerevoli interventi dei nostri maggiori poeti e scrittori i quali, con i loro scritti teorici e le loro prese di posizione spesso contrastanti l'una con l'altra, hanno contribuito alla continua revisione e riproposizione del problema linguistico. Dal volgare "aulico, illustre, cardinale e curiale" di Dante Alighieri (considerato il padre della nostra lingua) si passa così alla lingua "candida" dei puristi, all'italiano "vago" del Leopardi, al realismo dialettale del secondo '800, fino a giungere alla "prosa d'arte" degli scrittori della "Ronda", nel nostro secolo.
Per giudizio unanime della critica, fra gli interventi più autorevoli nel campo della questione della lingua, va senza dubbio citato quello, nella prima metà del secolo scorso, di Alessandro Manzoni, il cui romanzo storico "I promessi Sposi" rappresenta, secondo molti, il romanzo italiano per antonomasia, oltre ad essere la maggiore fra le opere dell'autore.
Tanto più interessante ci appare l'intervento del Manzoni sulla problematica linguistica se consideriamo che l'idea che lo scrittore ebbe della propria lingua non restò sempre la medesima, ma fu caratterizzata, al pari della conversione religiosa, da una continua e non sempre felice evoluzione.
Occorre precisare innanzitutto che già in parecchi scritti successivi alla conversione (1810) e precedenti la prima stesura di "Fermo e Lucia" (1823), l'importanza e la necessità di una lingua comune appare come un problema fortemente sentito dallo scrittore, principalmente sotto due aspetti:
•  la lingua, partendo da premesse "illuministiche", viene considerata in un primo luogo come "mezzo di comunicazione", ed in quanto tale, deve essere essenzialmente chiara e compresa dal maggiore numero di persone possibile.
Si tratta, quindi, dell'aspetto "pratico" della lingua, e gli scrittori manzoniani ai quali possiamo fare riferimento sono il piccolo saggio "Sentir Messa", pubblicato postumo, nonché, fra gli Inni Sacri, la "Pentecoste", nella quale troviamo messo in risalto il miracolo della polilalìa, in virtù del quale gli Apostoli furono in grado di predicare il Vangelo in tutte le lingue del mondo conosciuto, potendo così portare il Verbo di Dio a tutti i popoli della terra
•  La seconda motivazione è invece di carattere ideale e patriottico in quanto una nazione non può dirsi veramente tale se non è unita dal punto di vista militare ("una d'arme") e religioso ("d'altare"), ma neanche può essere considerata "una" se non si trova unita nella lingua e nel sentimento (confronta "Marzo 1821" , dalle Odi civili).
Successivamente alla presa d'atto, da parte del Manzoni, dell'indiscussa necessità di questo "uffizio essenziale", lo scrittore cercherà continuamente, nelle sue opere successive e soprattutto nel suo romanzo-capolavoro, di impegnarsi attivamente nella ricerca di un nuovo italiano letterario, che risulti poi compatibile con la lingua d'uso comune, senza doversi mai identificare in essa.
La lingua auspicata dal Manzoni deve essere in primo luogo conforme alla "Poetica del vero", teorizzata nella prima stesura della "Lettera sul Romanticismo al Marchese C. D'Azeglio" utile per iscopo, interessante per mezzo e "null'altro fuor che il vero" per soggetto.
Questi requisiti trovano, dal punto di vista linguistico, la loro più elevata realizzazione nel romanzo "I Promessi Sposi", la cui evoluzione attraverso le quattro stesure successive (1821, '23, '27, '40), ci testimonia il già accennato carattere dinamico della problematica linguistica in Manzoni, che riesce infine a trovare una risoluzione nella cosiddetta "quarantana", ossia la celebra edizione del romanzo che tutti conosciamo, pubblicata dall'autore dopo aver "risciacquato i panni in Arno".
La scelta che lo scrittore opera per la lingua del suo romanzo si concretizza nel fiorentino parlato dalle persone colte, dal punto di vista lessicale e nella disposizione sintattica simile a quella del francese letterario.
Le motivazioni di questa scelta, fornite dall'autore stesso ed approfondite peraltro dalla critica linguistica, sono le seguenti: la scelta del fiorentino parlato da persone di un certo livello culturale risolve brillantemente il duplice problema di una lingua che suoni "viva e vera" da un lato e che contemporaneamente possa vantare un'illustre tradizione letteraria (basti citare Dante e Petrarca), mentre la struttura sintattica francese, eredità del soggiorno parigino dello scrittore era parallelamente funzionale al "realismo psicologico" dei personaggi.
Un ulteriore "motivo linguistico" presente nel romanzo può essere riscontrato nello stesso espediente del manoscritto secentesco, una tecnica narrativa che costituiva un cliché romantico al tempo dell'autore, ma che quest'ultimo seppe reinterpretare conformemente alla propria poetica del vero (è del critico Luigi Russo la tesi secondo la quale è il Seicento il vero protagonista del romanzo), non nascondendo però una velata polemica contro la ridondante ma spesso indecifrabile prosa barocca.
Un ulteriore spunto d'analisi, che contiene già in sé un giudizio dell'autore sulla lingua italiana, è costituito dall'uso del cosiddetto "idioletto", ossia della parlata tipica che distingue univocamente ogni singolo personaggio e che allo stesso tempo fa vivere in sé l'intera sua psicologia.
Un esempio significativo di idioletto può essere trovato senz'altro nel "latinorum" del dottor Azzeccagarbugli, il quale, se da un lato va interpretato come l'ennesima richiesta di chiarezza da parte di una lingua che deve soprattutto mettere gli uomini in condizione di comunicare tra loro, dall'altra parte apre le porte ad una nuova tematica che meriterebbe un adeguato approfondimento: la lingua può rilevarsi uno strumento di oppressione.
Purtroppo un'esauriente trattazione di questa problematica comporterebbe un'ampia digressione sulla cultura generale e poi, nel caso specifico del Manzoni, una discussione sul suo pessimismo cristiano.
Tutto ciò esula dal nostro specifico campo di indagine e mi limiterò ad affermare che al grande autore lombardo va comunque riconosciuto il merito di essere stato il primo ad aver posto il problema in termini così realisticamente efficaci. Non tutte le scelte effettuate dal Manzoni in campo linguistico sono state apprezzate: c'è chi, tra i critici, gli rimprovera di avere peccato nei confronti della sua stessa "poetica del vero e del verosimile", servendosi del toscano in luogo del dialetto lombardo, o mettendo sulle labbra di Lucia, una contadina, l'elevato lirismo delle parole dell' "Addio ai Monti", e c'è infine chi, come il Croce, sente la lingua del romanzo come "pregna d'oratoria e d'odor di sagrestia" (giudizio, peraltro, completamente revocato in seguito, quando definì "I Promessi Sposi" un'opera di grande arte e fantasia).
La critica storicista, contrariamente al giudizio denigratorio di Antonio Gramsci, vede nell'idioletto del Manzoni un precursore del realismo linguistico teorizzato dal verismo (Capuana, Verga) nella seconda metà dell'800 ma nega all'autore di aver saputo conciliare armonicamente lingua letteraria ed uso quotidiano.
Volendo concludere, ritengo sia opportuno far notare che rileggendo la citazione del Manzoni oggi, risulti immediatamente evidente che quello che l'autore temeva si rivelasse un "tentativo inutile", oggi può dirsi senza dubbio un "tentativo riuscito".
In tutte le scuole si parla e si scrive in Italiano e ciò significa che, prendendo spunto dalla citazione, "gli uomini dell'intera nazione possono fra loro intendersi il più pienamente possibile".
Certamente Alessandro Manzoni non poteva, nel primo Ottocento, prevedere l'enorme importanza che avrebbero avuto nel nostro secolo i mass media, ed il ruolo fondamentale che tutt'ora essi rivestono nell'unificare, aggiornare e promuovere la lingua. E' interessante notare come, al giorno d'oggi, si pensi addirittura ad una lingua planetaria parlata e compresa dagli uomini di tutto il mondo e come essa si vada sempre più identificando con la lingua inglese (dopo il fallito tentativo europeo dell'esperanto); la più ricca di vocaboli e la più semplice, secondo molti.
E' certo però che il saper parlare una lingua "mondiale" non debba in alcun modo significare una rinuncia al proprio patrimonio culturale etnico, fornitoci dalla "lingua dei padri", che costituisce un valore umano immenso ed irrinunciabile.
Da questo deriva l'impegno a non dimenticare mai il proprio dialetto, così come sarebbe assurdo seppellire una volta per sempre le lingue morte, in particolar modo il Greco e il Latino, una lingua, quest'ultima, che laddove per il Manzoni poteva essere negativizzata come strumento di oppressione, per Dante Alighieri - e sembra quasi un paradosso - essa era invece proprio sinonimo di "chiarezza" (confronta Paradiso, XV).


ALESSANDRO MANZONI











Alessandro Manzoni nacque a Milano nel 1785,  i genitori del Manzoni si separarono quando egli era ancora molto giovane. Per questo motivo dovette trascorrere l’infanzia e la prima giovinezza, fino al 1801, in collegi di padri Somaschi (prima a Merate, poi a Lugano) e Barnabiti (a Milano), dove ricevette un’educazione classica, ma subì anche l’arido formalismo e la regola tipica di quegli ambienti.
Quando uscì dal collegio aveva sedici anni e idee razionaliste e libertarie. Si inserì presto nell’ambiente culturale milanese del periodo napoleonico, strinse amicizia con i profughi napoletani Cuoco e Lomonaco, frequentò poeti già affermati e noti come Foscolo e Monti. Trascorse questo periodo lietamente, tra il gioco e le avventure galanti, ma dedicandosi anche al lavoro intellettuale e alle composizioni poetiche: l’esempio più illustre è rappresentato dal poemetto Trionfo della libertà. Deluso dal giacobinismo scrisse sonetti e idilli, il più maturo dei quali sembra essere Adda (1803).
L’anno successivo terminò la stesura di quattro Sermoni: Amore a Delia, Contro i poetastri, Al Pagani, Panegirico a Trimalcione, composizioni satiriche ricche di echi pariniani e alfieriani. Nel 1805 lasciò la casa paterna e raggiunse la madre a Parigi. Carlo Imbonati, compagno della madre dopo la separazione, era ormai morto. In suo ricordo, Manzoni scrisse un carme in 242 versi sciolti, intitolato In morte di Carlo Imbonati. Egli non aveva mai avuto un rapporto stretto con la madre, ma tra loro si creò ben presto una affettività intensa, che fu destinata a cambiare la vita dello scrittore. A Parigi frequentò ambienti intellettuali popolati da personaggi come Cabanys, Thierry, Tracy, di posizioni liberali e forte rigore morale. Il rapporto più importante, però, per Manzoni fu quello stretto con Claude Fauriel: attraverso un fitto scambio epistolare durato qualche anno, a poco a poco, questi divenne per il giovane Manzoni un importante punto di riferimento nella sua attività di scrittore.

A Parigi, il contatto con ecclesiastici di orientamento giansenista incise anche sulla conversione religiosa. Sul suo ritorno alla fede cattolica, Manzoni mantenne sempre un certo riserbo e, per questo motivo, è quasi vano tentare di ricostruirne le fasi interiori. Dovette essere importante l’influsso della giovane moglie, Enrichetta Blondel, figlia di un banchiere ginevrino, conosciuta a Blevia sulle colline bergamasche. Anche la Blondel subì un rivolgimento interiore significativo: sotto la guida dell’abate genovese Eustachio Degola, si avvicinò al cattolicesimo e fece battezzare col rito romano la primogenita Giulia Claudia, convincendo il marito, in seguito, a risposarsi con rito cattolico. Precedentemente, infatti, il loro matrimonio era stato celebrato con rito calvinista. È da dire che, in Manzoni, la conversione si accompagnò al primo manifestarsi di certe crisi nervose, che poi lo angustiarono per tutta la vita.

Nel 1810 lo scrittore lasciò Parigi per tornare definitivamente a Milano. La sua visione della realtà era ormai completamente improntata al cattolicesimo. Il mutamento si ripercosse anche sulla sua attività letteraria: smise di comporre versi dal tono classicheggiante, (l’ultimo esemplare rimane Urania, un poemetto del 1809) per dedicarsi alla stesura degli Inni sacri ( 1812-1815), che aprirono la strada ad una successiva produzione di stampo romantico, oltre che storico e religioso.

Una volta tornato in Italia, poi, Manzoni condusse la vita del possidente, dividendosi tra la casa milanese e la villa di Brusuglio. La sua esistenza fu dedicata allo studio, alla scrittura, alle intense pratiche religiose, alla famiglia che, nel frattempo, diveniva numerosa. Fu vicino al movimento romantico milanese e ne seguì tutti gli sviluppi (un gruppo di intellettuali si riuniva a discutere a casa sua), ma non partecipò mai, direttamente, alle polemiche con i classicisti e declinò l’invito a partecipare al «Conciliatore».

Anche nei confronti della politica ebbe un atteggiamento analogo, di sinceri sentimenti patriottici e unitari, seguì con entusiasmo gli avvenimenti del 1820-1821, ma non vi partecipò attivamente e non venne colpito dalla dura repressione austriaca che ne seguì. Sono questi gli anni di più intenso fervore creativo, in cui nacquero le odi civili, la Pentecoste, le tragedie (Il conte di Carmagnola, Adelchi), le prime due stesure de I promessi Sposi (inizialmente intitolato Fermo e Lucia), oltre alle Osservazioni sulla morale cattolica, al Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, ai saggi di teoria letteraria sulle unità drammatiche e sul Romanticismo.
In seguito Manzoni, per dare vita alla stesura finale del romanzo a livello formale e stilistico, si trasferì a Firenze nel 1827, in modo da entrare in contatto e "vivere" la lingua fiorentina delle persone colte, che rappresentava per l'autore l'unica lingua dell'Italia unita. Rielaborò I promessi sposi dopo la "risciacquatura in Arno" facendo uso dell'italiano nella forma fiorentina colta e nel 1840 pubblicò questa riscrittura. Con ciò assumeva che quella era la prima vera opera frutto totale della lingua italiana.
Con la pubblicazione de I promessi sposi nel 1827, si può dire concluso il periodo creativo di Manzoni. Successivi tentativi lirici, come un inno sacro sull’Ognissanti, rimangono incompiuti. Manzoni tese sempre più a rifiutare la poesia considerata “falsa” rispetto al “vero storico e morale”. Conseguentemente, approfondì interessi filosofici, storici e linguistici. L’amicizia con Claude Fauriel venne sostituita da quella con Antonio Rosmini, un filosofo cattolico, che presto divenne la sua guida spirituale. Negli anni della maturità, la vita di Manzoni fu funestata da crisi epilettiche, una serie interminabile di lutti (la morte della moglie, della madre, di parecchi dei figli) e dalla condotta dissipatrice dei figli maschi. Nel 1837 si risposò con Teresa Borri Stampa, che morì poi nel 1861.

Scrivendo nel 1842 Storia della colonna infame, Manzoni evita qualsiasi spunto narrativo, rimettendo in questo modo al lettore, posto di fronte alla crudezza di quanto accaduto, ogni giudizio. Il saggio è una cronaca asciutta e distaccata dei fatti che si svolsero intorno al processo ai presunti untori che ebbero la sfortuna di essere accusati di aver propagato la peste che sconvolse Milano nel XVII secolo

Ormai lo scrittore era divenuto un personaggio pubblico, nonostante il suo atteggiamento sempre schivo e appartato. Durante le Cinque giornate, nel 1848, seguì con vigore gli eventi politici, pur senza parteciparvi attivamente e diede alle stampe Marzo 1821, per anni tenuta nascosta. Quando il regno d’Italia si ricostituì nel 1860, fu nominato senatore. Pur essendo profondamente cattolico, era contrario al potere temporale della Chiesa, e favorevole a Roma capitale. Nel 1861, infatti, votò a sfavore del trasferimento della capitale da Torino a Firenze, come tappa intermedia verso Roma. Nel 1872, dopo la conquista della città da parte delle truppe italiane, ne accettò la cittadinanza onoraria, con scandalo degli ambienti cattolici più retrivi. Negli anni della sua lunga vecchiaia fu circondato dalla venerazione della borghesia italiana, che vedeva in lui non solo il grande scrittore, ma anche un maestro, una guida intellettuale, morale e politica. Soprattutto il suo romanzo fu assunto nella scuola con tale funzione.

Morì a Milano nel 1873, a ottantotto anni,  gi furono tributati solenni funerali, alla presenza del principe ereditario Umberto. Verdi gli dedicò la sua Messa da Requiem.


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