QUALCHE CONSIGLIO DEL COLLEGA DE BELLIS SULLO STUDIO DELLA LINGUA ITALIANA.
Una indagine sui "Promessi Sposi", condotta con il
computer da una équipe
del Centro Studi Lessicografico " F. Valletti" guidata da Giorgio
De Rienzo (i
cui risultati sono stati pubblicati in cinque volumi dalla "Arnoldo
e Alberto
Mondadori" con il titolo "Concordanze dei Promessi
Sposi", Milano, 1985), ha svelato che il romanzo del Manzoni contiene
223.000 parole, ma che i
vocaboli usati sono solo 8.950 e compaiono già tutti nei primi dieci
capitoli
dell'opera.
Se, ora, consideriamo che la lingua italiana è formata da più di 50.000
vocaboli e che un bambino di 5 anni, secondo studi attendibili, ne conosce
all'incirca 3.000, potrebbe venirci la tentazione di affermare che, alla
fin fine,
il Manzoni non fu uno scrittore dotato di un grande capitale linguistico,
anche
se seppe far fruttare al massimo quello di cui disponeva. Ma, se non siamo
cretini, non può minimamente offenderci una siffatta tentazione; che, anzi,
può tramutarsi in una sollecitazione per alcune riflessioni, modeste ma non
gratuite. Anzi quasi ovvie.
La prima è che per erigere un grandioso edificio linguistico, un vero e
proprio
grattacielo (e tra i più eleganti e confortevoli di quelli che conosciamo)
non fu
necessario disporre di un intero vocabolario; la seconda è che, se il Manzoni
adoperò soltanto 8.950 vocaboli, non significa affatto che non ne
conoscesse
tanti altri che non ebbe necessità di usare o non volle usare; la terza è
che,
per esprimersi felicemente -cioè in modo esauriente ed essenziale, efficace
e
gradevole- sono necessari una congrua -anche se quantitativamente
modesta- ma sicura disponibilità del "materiale" da utilizzare
(lessico), una
discreta abilità nell'uso degli "strumenti" da adoperare
(grammatica), un certo
buon gusto (stile).
Insomma per parlare e scrivere bene in lingua italiana -tanto più se non si
ha
la pretesa di scrivere come il Manzoni- non occorre conoscere tutti i
50.000
vocaboli esistenti, ma è indispensabile sapere che la parola capitale può
essere aggettivo ( "Fu condannato alla pena capitale") ma
anche sostantivo
( "Hanno investito un ingente capitale nella nuova azienda");
che la parola
orgoglio (che indica genericamente una "stima smisurata di
sé") può essere
sostituita, a vantaggio della perspicuità, dai suoi "sinonimi" presunzione,
superbia, arroganza (che hanno come loro "contrari"
rispettivamente
modestia, umiltà e mitezza); che in luogo di "Essa
è dovuta partire", come
suggeriscono i grammatici, non è scandaloso dire "Essa ha dovuto
partire",
come usava il Manzoni; che mentre rappresenta un pugno nell'occhio dire:
"Se verrebbe Lucio alla festa, non ci verrei io", è
affatto normale dire: "Dimmi
se verresti alla mia festa", data la
diversa natura delle due proposizioni
introdotte dalla congiunzione "se" (la prima è, infatti,
una "condizionale", la
seconda una "interrogativa indiretta").
Ed è infine utile saper cogliere la differenza di stile e di classe tra
l'espressione
di una persona comune e quella di un artista: apprezzare una squisita
pietanza è già segno di un gusto raffinato, anche se non siamo capaci di
confezionarla come fa il cuoco.
Assaporiamo insieme questa delizia dannunziana:
«L'usignolo cantava. Da prima fu come uno scoppio di giubilo melodioso,
un
getto di trilli facili che caddero nell'aria come un suono di perle rimbalzanti
su per i vetri di un'armonica. Successe una pausa. Un gorgheggio si levò,
agilissimo, prolungato straordinariamente come per una prova di forza, per
un impeto di baldanza, per una sfida a un rivale sconosciuto. Una seconda pausa.
Un tema di tre note, con un sentimento interrogativo, passò per una catena
di
variazioni leggere, ripetendo la piccola domanda cinque o sei volte,
modulato
come su un tenue flauto di canne, su una fistula pastorale. Una terza
pausa. Il
canto divenne elegiaco, si svolse in un tono minore, si addolcì come un
sospiro, si affievolì come un gemito, espresse la tristezza di un amante
solitario, un desio accorato, un'attesa vana; gittò un richiamo finale,
improvviso, acuto come un grido d'angoscia: si spense" Ad un autore capace
di tanto chi mai si permetterebbe di fargli notare che invece di "Successe
una
pausa" sarebbe più corretto dire "Succedette una
pausa"?
Il sugo del ragionamento è che tutti possono parlare correttamente purché
dispongano di una sufficiente quantità di vocaboli (con cognizione del loro
esatto significato) e conoscano quasi perfettamente la grammatica. Cose,
queste, che si possono e si dovrebbero acquisire nell'età giusta e con
l'aiuto
della scuola.
Che poi l'espressione personale risulterà più o meno elaborata o
elementare,
elegante o disadorna, dipenderà da numerosi fattori che col vocabolario e
con
la grammatica non c'entrano proprio: dipenderà dal grado di cultura
personale, dalla maggiore o minore vivacità della fantasia, dalla
sensibilità del
cuore, dalla versatilità della mente, ecc. Tutte doti che si possono, sì,
sviluppare, ma in tempi lunghi, piuttosto fuori che dentro la scuola, con
molta
dedizione e qualche predisposizione.
Ma se, per raggiungere l'ambizioso traguardo di una capacità espressiva di
alto prestigio, la scuola può solo servire a darci indicazioni
metodologiche, a
suggerirci itinerari di ricerca culturale, ad offrirci stimoli persuasivi,
mentre il
risultato dipende soprattutto dalla nostra personalità; per consentirci di
parlare e scrivere con decoro -attitudine indispensabile per vivere alla
meglio
in una società sempre più complessa e, fortunatamente, democratica-, essa
può tutto o quasi tutto. La condizione è che la scuola ritorni ad insegnare
veramente la grammatica, come faceva un tempo.
All'occorrenza anche con la dovuta fermezza e severità, data la naturale
indisponibilità di fanciulli ed adolescenti -proprio nell'età dei primi
giochi e dei primi amori- a sottrarre tempo prezioso ai loro più autentici
interessi per
impiegarlo in estenuanti esercizi grammaticali che, nella loro peculiarità,
non
sembrano avere alcuna immediata oggettiva utilità. Ma tant'è! A nessuno
piace bere l'olio di ricino, neppure agli adulti, però, se necessario,
bisogna
mandarlo giù, con le buone o con le cattive maniere.
Tuttavia, per rendere meno amara la medicina, è possibile sfrondare la
"grammatica" di tutto quanto sia ingombrante ed inutile
all'uso quotidiano
della lingua. Infatti, se uno, attraverso le buone letture, impara ad
apprezzare
e ad usare il linguaggio figurato, è proprio necessario che sappia
distinguere
una metafora ( "Andreotti è una vecchia volpe") da una
similitudine
( "Andreotti ha sempre agito come una vecchia volpe")? E a
chi giova, oltre
che al poeta che intendesse scrivere ancora per endecasillabi, sapere che
questo tipo di verso deve avere gli accenti ritmici così disposti: sulle
sillabe
sesta e decima o sulle sillabe quarta, settima e decima o sulle sillabe
quarta,
ottava e decima?
Fra le tante stupidaggini che hanno detto i moderni pedagogisti (e peccato
che in tanti ci abbiano creduto!) vi è quella secondo cui non è necessario
affliggere gli alunni con lo studio sistematico della grammatica,
all'apprendimento della quale si può comunque pervenire attraverso continue
e rapsodiche osservazioni sull'uso quotidiano della lingua. E questo al
solo
scopo di preservare la mente dell'alunno da una "fatica" e
da evidenti
"violenze" per troppi secoli esercitate dalla scuola sugli
indifesi discepoli. Nulla di più inesatto! E per due ragioni altrettanto
valide: una di fondo, diciamo così "ideologica", ed una di
natura pratica.
Infatti la continua preoccupazione di mettere fanciulli e adolescenti
sempre e
comunque al riparo da attività non gradite e che impegnino la volontà,
lungi
dal favorire una "crescita" sana in piena libertà, finisce
immancabilmente col
generare nell'alunno l'errato convincimento che il "sacrificio"
non gli compete
minimamente, che egli è un essere diverso e privilegiato dalla natura,
perché
è ovvio che non gli possono sfuggire gli infiniti esempi di sacrificio che
fanno
giornalmente tutti quelli che gli vivono accanto.
Non è difficile valutare preventivamente il danno psicologico che un
siffatto
convincimento errato può produrre nel soggetto e sono sotto gli occhi di
tutti
esempi di devianze e schizofrenie varie dovute unicamente a "carenza
di
carattere" e non già a "carenza di affetto"
(e i rari ma significativi suicidi che
di tanto in tanto si verificano tra i militari di leva ad opera di giovani
pur
dotati, all'apparenza, di sana e robusta costituzione psico-fisica, non
sono che la punta di un iceberg, la cui estensione è ignota certamente ai
politici, in
tutt'altre faccende affaccendati, ed ai tanti studiosi che si interessano
in
astratto delle problematiche del mondo giovanile, ma non agli educatori che
vivono in mezzo ai giovani).
La seconda ragione, quella di natura pratica, ampiamente sperimentata e
registrata nella scuola italiana, consiste nell'accertata difficoltà di
approdare
ad una sistemazione grammaticale attraverso l'osservazione dei singoli
fenomeni linguistici, con metodo frammentario e in momenti occasionali:
sarebbe come voler insegnare ad un giovane a progettare e costruire palazzi
portandolo in un cantiere e facendogli osservare le singole minute
operazioni
degli addetti ai lavori (e neppure secondo un criterio cronologico -che già
sarebbe qualcosa!- ma come capita) anziché insegnargli le "regole"
della
costruzione edilizia. Mentre lo studio preventivo e sistematico della
grammatica dà certezze e completezza alla conoscenza di una lingua.
Il problema, poi, se una lingua possa essere appresa col semplice uso
-senza,
cioè, la grammatica- credo non si ponga nemmeno, dato che in tal caso si
tratterebbe di "linguaggio" e non di lingua. Questo
criterio di apprendimento
può valere unicamente per gli emigrati -tanto se poveri venditori ambulanti
che se stramiliardari giocatori di calcio- che nella terra di temporanea
adozione hanno bisogno della lingua per risolvere i piccoli problemi che si
presentano al ristorante o al distributore di benzina. E può valere anche
per
chi ha fatto la scelta, libera o forzata, di dedicare tutta la vita alla
pastorizia e
solo qualche giorno all'anno lascia le pecore per le persone.
Morale: a) una cosa è conoscere di una lingua quanto basta per farsi
capire
nell'esporre le proprie elementari esigenze, una cosa è conoscere una
lingua,
anche e soprattutto la propria, per esprimersi adeguatamente nella vita
civile
in rapporto alla maggiore o minore dignità del ruolo che si ricopre; b)
non si
può usare convenientemente una lingua senza conoscerne bene la
grammatica; c) l'apprendimento della grammatica è molto più rapido e
sicuro
-anche se fastidioso e per nulla appagante nell'immediato- se si conduce
con
sistematicità, partendo dalla sua attuale (e, cioè, convenzionale)
definizione,
anziché ripercorrendo in pratica il secolare processo compiuto dai
grammatici
per giungere dai singoli fenomeni alla formulazione di una casistica
generale.
Quanto faceva ridere quello slogan rivolto agli alunni delle elementari e
delle
medie: "Costruisci da te la tua grammatica"!
Immancabilmente la costruzione
si fermava alla "messa in opera" degli articoli, dei
sostantivi, degli aggettivi e,
qualche volta, dei pronomi. Già coi verbi nascevano i primi intoppi:
«Professore ho trovato "mesce": dove lo metto?» Risposta:
«Dipende da
come è scritto. E' tutto attaccato o ha l'apostrofo?» Figuriamoci se si sarebbe
mai giunti a "sistemare" l'uso del congiuntivo e la
diversità del "mentre"
temporale o avversativo!
In conclusione, il nostro pensiero circa l'insegnamento della lingua
italiana è
precisamente il seguente: bando alle ciarle pseudo-pedagogiche e
pseudosociologiche e si ritorni alla didattica tradizionale. Magari con un
decreto-legge impopolare.
Ora però è giunto il momento di conoscere più da vicino l'oggetto del
nostro
studio.
Vincenzo Monti affermò che la lingua è un "organismo vivente",
volendo
intendere che essa è in continua evoluzione e non si può fissare in norme
rigide né racchiudere in un vocabolario definito una volta per sempre. Il
Manzoni condivise l'opinione dell'amico e maestro e noi crediamo che ci sia
poco da obiettare su di essa.
Ed allora, partendo dall'immagine mondana, anche la lingua italiana ebbe il
suo periodo di gestazione nel corpo materno, cioè nella lingua latina (alto
medioevo), venendo finalmente alla luce (basso medioevo), quando però la
madre era già avanti negli anni.
Grazie alle cure amorevoli di un grande pediatra linguistico (Dante), dopo
i
primi inciampi e ruzzoloni, cominciò a camminare spedita e, ancora
fanciulla,
faceva già presagire che sarebbe divenuta più bella della madre: tanto è
vero
che l'estetista di famiglia, un certo Petrarca, cominciò a prendersi cura
di lei,
pur non abbandonando la madre, alla quale, nonostante le rughe e gli
acciacchi della vecchiaia, sapeva tuttavia conferire un certo aspetto di
austera
bellezza. Ma gli anni passavano inesorabili e nulla poterono i gerontologi
linguistici (gli umanisti) per evitare che la vegliarda si spegnesse
lentamente. La figlia, invece, continuava a crescere, sempre più bella, via via
allontanandosi dalle sembianze della madre ma non dall'educazione ricevuta da
lei, e si avviò verso gli anni della maturità e della piena indipendenza (Settecento
e Ottocento), dopo una pimpante giovinezza (Cinquecento) non priva di qualche baldanzosa
stravaganza, tipica delle ragazze che, orbate della saggia guida materna, si
abbandonano temporaneamente alla voluttà di una libertà senza freni (Seicento).
Nella piena maturità, molto utili le furono le premurose attenzioni di un
vero
amico, il Manzoni. Ma poi, che vuoi, gli anni passano per tutti, gli amici
si
perdono per strada: restano i ricordi dei primi amori giovanili (Ariosto,
Tasso), di quelli più turbinosi e violenti della prima maturità (Alfieri,
Foscolo), ma è giocoforza cedere alla rassegnazione di una dignitosa vecchiaia
ed accettare le trasformazioni, naturalmente in peggio, che tanto male ci
fanno, se non si vuole cadere nella disperazione e prendere quelle naturali
trasformazioni come degli insulti della natura o, peggio, come effetto di un
cinico e sprezzante disinteresse di quanti dovrebbero esserci vicino ed
aiutarci a vivere alla meglio gli anni che ci restano.
Certo è che la gloriosa Lingua Italiana, figlia della non meno gloriosa
Lingua
Latina, non sta affatto trascorrendo una placida vecchiaia. Non mancano
quelli
che, sapendo che deve morire, la sottopongono, all'insegna di uno
spregevole
sperimentalismo, a terapie inaudite, con largo uso di discutibili
medicinali
provenienti d'oltralpe, d'oltremanica, d'oltreoceano, o di disgustosi
intrugli
confezionati in patria da lestofanti e sofisticatori senza scrupoli (sul
tipo di
"vu' cumprà" ).
Circa la reazione psicologica dell'antica signora, gli psichiatri sono
divisi nella
diagnosi: alcuni affermano che sta vivendo con rassegnazione lo strazio
della
fine e non vede l'ora che l'Europa Unita la seppellisca, augurandosi solo
che i
posteri la ricordino com'era da giovane, proprio come è capitato alla sua
augusta genitrice, che tutti ricordano con rispetto com'era all'epoca di
Cicerone e di Orazio e non certo come si era ridotta all'epoca di Giovenco
e
Sedulio; altri affermano che è, sì, spesso depressa, ma non rassegnata,
anzi
in qualche occasione combattiva e speranzosa di poter anche ringiovanire,
solo che qualcuno l'aiutasse (imperfetto congiuntivo per sottolineare
l'improbabilità della speranza).
Sempre paragonando la lingua all'organismo umano, vediamo ora di fare il
punto sulla sua struttura.
L'organismo umano, all'atto del suo concepimento, è un "embrione"
che
contiene potenzialmente la forza vitale dello sviluppo. Da esso ha origine
un'infinità di cellule di varia natura che, unendosi tra loro,
formano vari tipi
di tessuti.
Sono questi che danno costituzione ai diversi organi che,
singolarmente o in
combinazione tra loro, formando cioè degli apparati, svolgono le
varie
funzioni necessarie alla vita dell'organismo. Tutti gli organi agiscono in
perfetta intesa tra loro: se uno solo di essi non fa il proprio dovere,
tutti gli
altri sono condizionati nella loro efficienza e l'organismo avverte uno
stato di
malessere.
Analogicamente la lingua (=organismo umano) si compone inizialmente di
parole (=cellule) che costituiscono le parti del discorso (=tessuti)
in grado
di formare le proposizioni (=organi). Una o più proposizioni in
stretta
relazione tra loro, formano i periodi (=apparati) e questi, in
armonia tra loro,
sviluppano la funzione propria della lingua, cioè il discorso (che
nell'analogia
rappresenta il corpo umano, cioè l'organismo umano nel suo aspetto unitario
ed operante).
Ma come nell'organismo umano le "cellule" sono formate da
una o più
molecole e queste da uno o più atomi, così le "parole"
sono formate da una
o più sillabe e queste da una o più lettere (oggi, si sa che
anche gli atomi
sono scomponibili e nulla ci impedisce, per continuare l'analogia, di dire,
ad
esempio, che la lettera "p" è formata da una stanghetta
verticale e da una
semicirconferenza che, partendo dal punto più alto della stanghetta, si
ricongiunge ad essa, dalla parte di destra, in un punto mediano!).
Perciò, se per avere vera ed esatta conoscenza del corpo umano occorre
partire dallo studio degli atomi e delle molecole e risalire via via allo studio
delle cellule e dei tessuti, degli organi, degli apparati, delle loro
funzioni e
disfunzioni, così per avere vera ed esatta conoscenza della lingua bisogna
partire dallo studio delle lettere e delle sillabe e risalire
via via allo studio
delle parole e delle parti del discorso, delle proposizioni,
dei periodi,
della loro corretta o scorretta funzionalità nella composizione del
discorso.
Per conoscere il corpo umano, aiutarlo nello sviluppo, proteggerlo nella
salute
prevenendo o correggendo le eventuali disfunzioni, l'umanità ha creato la
scienza medica, che racchiude in sé tante altre scienze particolari
(microbiologia, biologia, istologia, anatomia, fisiologia, igiene,
patologia,
farmacologia, ecc.). Per conoscere la lingua, aiutarla nello sviluppo,
proteggerla nella purezza, ha invece creato la grammatica, sintesi
di varie
scienze particolari (fonologia, morfologia, sintassi, stilistica, ecc.).
Il grammatico sta all'insegnante di lingua come lo scienziato della
medicina
sta al medico di famiglia. I primi esponenti dei due rapporti stabiliti
studiano,
nei rispettivi campi, i "fenomeni" e derivano "leggi";
gli altri due diffondono i
risultati scientifici perché la gente sia sana e si esprima bene. Per stare
bene
in salute dobbiamo dare ascolto ai consigli del nostro medico di famiglia
fin
dall'infanzia, perché egli solo sa darci le indicazioni opportune per
tenerci
lontani dai malanni fisici in relazione alle varie età ed alle diverse
esigenze dei
nostri particolari organismi. Per parlare e scrivere bene dobbiamo
accettare
l'insegnamento del docente di lingua, che non solo ci fornisce la
conoscenza
strutturale della lingua, ma ci consiglia pure sul come migliorare la
capacità
espressiva in armonia con la nostra personalità.
In definitiva dipende poi da noi gestire correttamente la salute del corpo,
applicando le norme dell'igiene, e la perspicuità della nostra espressione
scritta e orale, applicando le norme della lingua. E come siamo in grado di
imparare a nutrirci secondo una dieta corretta senza dover di volta in
volta
fare il conto delle calorie che assumiamo, l'analisi degli elementi che
ingeriamo, così possiamo imparare ad usare correttamente la nostra lingua
senza dover ricorrere
continuamente alla riesumazione delle "regole" studiate
a scuola.
A questo punto -e solo a questo punto- l'uso, la pratica basteranno a farci
da
guida. Anche se saremo costretti qualche volta a consultare l'enciclopedia
medica o la grammatica e qualche altra volta a ricorrere ai consigli del
medico
o dell'insegnante di lingua.
Per concludere definitivamente il discorso, vogliamo fare un'ultima
riflessione, non senza ribadire ancora una volta che è possibile a tutti
scrivere e parlare bene la propria lingua a patto, però, di conoscerne bene la
grammatica; e che questa può e deve essere insegnata ed appresa in modo
sistematico, che è il modo più rapido e sicuro.
Attenti, però!
Come il possedere un corpo sano ed efficiente non ci rende una
"persona" se
non siamo dotati di "pensiero" e "sentimento",
così il possedere uno
strumento linguistico corretto ed efficace non ci vale a nulla se non
abbiamo
"contenuti" da comunicare...
Luigi De Bellis
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