FAMOSI STILISTI COME ARMANI, VALENTINO, MOSCHINO, VERSACE, GUCCI, DOLCE & GABBANA E TANTI ALTRI, HANNO LEGATO I LORO MARCHI AL SUCCESSO INTERNAZIONALE. LA MODA FA PARTE INTEGRANTE, QUINDI, DELLA CULTURA ITALIANA
VEDIAMO COME E' NATA...
Tutto ha inizio nel 1949 quando, tornata finalmente la libertà, in
Italia riaprono tutti i negozi e gli italiani, sentendo l’esigenza di cambiare
per poter dimenticare, cercano di farlo a partire dall’abbigliamento. Il 27
gennaio nella basilica di Santa Francesca a Roma, avviene quello che i più
ritenevano il matrimonio del secolo, quello tra Linda Christian e Tyrone Power.
Quel giorno la moda italiana conquistò il mondo: il vestito della sposa era
stato realizzato dalla boutique delle sorelle Fontana. Le numerose tv e i
giornali esteri che parteciparono fecero notevole pubblicità all'evento mondano
e allo stile italiano.
Fu l’inizio di un grande amore che continua tutt’ora: la moda italiana e
il mondo.
La ricostruzione postbellica del nostro paese fu permessa soprattutto grazie al piano Marshall varato nel 1947 e agli aiuti finanziari americani diretti alle industrie per un totale di 125 milioni di dollari. Per quanto riguarda il tessile furono inviate all’Italia 34.000 tonnellate di cotone grezzo, ma per consentire la completa apertura delle fabbriche, il governo fu costretto a importarne altre 50.000, mentre i privati ne comprarono altre 170.000.
L’Italia comunque si trovava a dover competere con veri colossi fuori dai suoi confini, inizia quindi a importare conoscenze e macchinari, e sull’onda della rinascita economica dà vita a grandi imprese. Secondo la stilista Micol Fontana furono proprio le donne a dare un forte impulso alla rinascita dopo la guerra, in quanto erano fortemente determinate a far rivivere il settore tessile, che proprio in quegli anni venne inglobato da quello della moda.
Erano gli anni in cui gli americani presero possesso di Cinecittà. Il cinema da quel momento portò molto lavoro alle sarte, in particolar modo alle sorelle Fontana che lavoravano soprattutto per l’aristocrazia romana, ma anche ai nuovi stilisti nascenti quali: Emilio Federico Schubert, Valentino, Roberto Cappucci, Iole Veneziani, Biki, Germana Marucelli. Molti sarti poi venivano dalle campagne o da altre città verso Roma e Milano, dove nacquero le sartorie di Fonticoli, Fonda, Brioni, Litrico, Tritapepe, Cavaliere.
Le botteghe coincidevano spesso con la casa. Il primo atelier Fontana era in via Emilia, una traversa di via Veneto, era lì che ricevevano i registi e gli attori famosi. Nonostante i passi avanti della moderna industria tessile, la maggior parte degli italiani continuava però a farsi fare i vestiti in sartoria. I meno ricchi poi indossano vestiti fatti in casa: quasi in ogni abitazione, infatti, c’era una macchina per cucine e qualcuno che la sapesse usare. L’abbigliamento era un bene che passava di mano in mano: riadattato e rimodellato per essere indossato nuovamente. Non si può parlare quindi ancora di un’industrializzazione massiccia. Però l’Italia scopre il fascino dell’alta moda e il boom degli anni ’50 le permette di andare in competizione con paesi come la Francia, da sempre il leader del settore.
Il primo défilé collettivo al quale si fa risalire la nascita della moda italiana è avvenuto a Firenze: il marchese Giovanni Battista Giorgini, il 12 febbraio 1951 organizzò nella sua casa fiorentina in via dei Serragli, il "First Italian High Fashion Show". Alla base di questo evento ci fu una grande intuizione: riuscì a convincere i presidenti dei magazzini americani a venire a Firenze il giorno dopo le sfilate di Parigi. Mise insieme dieci stilisti con diciotto modelli a testa, tra i partecipanti ci furono le sorelle Fontana, Emilio Schubert, la casa di moda Fabiani, Noverasco, Veneziani, e anche Germana Marucelli, anticipatrice del new look di Christian Dior.
Anche per Giorgini fu un momento estremamente emozionante: “ero in un angolo della sala col cuore in gola per questi compratori, questi esperti di moda che venivano da Parigi, avevano appena visto tutte le collezioni di Parigi e non potevo vedere dalle loro espressioni se questa collezione piaceva o non piaceva. Terminata la sfilata mi avvicinai per sapere la loro reazione: entusiasti. Questo gruppo di cinque compratori tornarono in america con tale entusiasmo che quando feci la seconda sfilata vennero dall’america in 300!”
Fu un successo formidabile quindi e in seguito, per le sfilate successive, il comune di Firenze, con un’idea illuminata, permise l’utilizzo di Palazzo Strozzi prima e Palazzo Pitti poi, dove nacque la famosa sala bianca. Le sfilate erano ben congegnate, emozionanti: la passerella era sempre la stessa, era lo stile del sarto a cambiare.
Il grande boom
Il fenomeno commerciale della moda non esisteva prima delle sfilate di Giorgini, le case di alta moda, infatti, vendevano solo ai privati. L’esempio più importante di impresa che si costituisce negli anni successivi alla seconda guerra mondiale è rappresentato dal gruppo GFT (Gruppo Finanziario tessile). Nato prima della guerra, negli anni ‘50 subiva uno scontro interno tra la vecchia generazione e la nuova che vedeva nel prodotto confezionato grandi possibilità di crescita. Furono i giovani ad avere la meglio e grazie a Giorgio Rivetti presero una serie di iniziative per unificare il mercato italiano della distribuzione e produzione del prodotto confezionato. I prodotti venivano distribuiti nei Magazzini Marus (magazzini, ragazzi, uomini e signore) e, compiendo la più grande operazione di rilevazione antropologica della popolazione italiana dopo quella dell’esercito, la GFT creò il sistema delle taglie. Fu un passo straordinario che venne accompagnato dalla politica del prezzo imposto. Il gruppo torinese Gft (Gruppo Finanziario Tessile), controllato dalla holding Hdp, chiuderà in via definitiva nel febbraio 2003, cedendo i marchi Facis, Valentino e Sahzà.
Intanto dal ’58 al ’63 il grande boom fece aumentare i consumi del 5%. Solo nel 1958 vennero prodotti 300.000 televisori, 369.000 automobili, 700.000 radio, e ci fu un aumento del 10% degli elettrodomestici sul mercato. L’esportazione passò da un passivo di 187 miliardi, a un attivo di 124,3 miliardi. Il miracolo economico però nascondeva anche delle ombre: in quegli anni il fenomeno dell’emigrazione dalle campagne alle città e dal sud al nord era altissimo, gli immigrati nel solo settentrione furono 300.000.
Quindi proprio mentre cresceva l’industri tessile, la domanda si spostava verso altri mercati, ma questo non proibì a molti stilisti di creare l’alta moda pronta, ovvero il prodotto di alta moda confezionato ad hoc per essere fruibile non solo da un’elite. Il primo a intraprendere questa strada fu lo stilista francese Pierre Cardin, ma ben presto molti atelier seguirono questa idea innovativa. Nasce così il prêt-à-porter italiano. Le boutique più importanti iniziarono a vendere non più abiti su misura ma confezionati in taglie, adattabili quindi a tutti i clienti e a costi più bassi. La qualità dei vestiti era comunque molto alta, grazie anche ai materiali usati: venivano utilizzate infatti stoffe pregiate, seconde solamente a quelle inglesi.
È in questo periodo, in questo meccanismo commerciale, che si sviluppa il nuovo settore pubblicitario che porta alla nascita dell’editoria specializzata in moda.
Gli anni ’60 e ’70, si afferma il Made in Italy
La modella Mirella Pettini ricorda questi anni come anni meravigliosi, in cui il rapporto con gli stilisti emergenti come Valentino e Armani erano molto validi perché si era ancora in pochi e gli stilisti si occupavano direttamente anche della pubblicità. Le modelle erano diverse da quelle di oggi, si truccavano e pettinavano da sole, inoltre non c’erano competizione tra di loro in quanto tutte cercavano di mantenere la propria personalità, di avere il proprio stile. Il gruppo moda, in qualche modo, era un gruppo di amici.
Alla fine degli anni ‘60 la contestazione politica coinvolse anche il mondo della moda. La rottura col passato divenne evidente, soprattutto tra i giovani. Nacquero movimenti come gli yuppie che rivoluzionarono completamente il modo di essere e di apparire. La stilista londinese Mary Quant ha individuato nella minigonna il simbolo della moda di quegli anni. La minigonna infatti voleva dire giovinezza, libertà, movimento. Improvvisamente le donne ebbero infatti la gioia di godere del loro vestito, senza dargli troppa importanza.
Il ’68 investe anche l’Italia e negli anni ’70 gli operai iniziarono una serie di scioperi e di occupazioni delle fabbriche. La stilista Micol Fontana non ricorda affatto bene quegli anni in cui a causa di scioperi proprio nei giorni precedenti alle sfilate spesso non fecero in tempo a spedire le collezioni e furono costrette quindi a chiudere la loro fabbrica ai Castelli.
Nonostante l’ammodernamento i modelli di produzione tessile entrarono però in crisi e ci furono profonde modifiche a livello mondiale nell’organizzazione della produzione. Molti paesi superarono questa crisi decentrando la produzione: gli Usa nelle aree satellite del Centro America, la Francia nell’Africa del nord, la Germania nell’Est europeo. Ma l’Italia non aveva aree satellite e così fu costretta a ripiegare proprio nella struttura interna industriale la quale da quel momento presentò una specifica peculiarità: uno dei pilastri portanti era rappresentato dal sistema diffusissimo delle piccole e medie imprese.
Fu una soluzione straordinaria, in quanto portò innovazione nella produzione grazie alla flessibilità, ovvero alla capacità di cambiare rapidamente il genere produttivo. Artefice di questa idea fu Marco Olivetti il quale rivitalizzò l’industria tessile grazie al rapporto instaurato con gli stilisti e in particolare con Giorgio Armani. Allenza tra stilismo e industria e quindi tra creatività e imprenditoria, segna così la nascita del Made in Italy. È proprio grazie all’incontro e alla collaborazione tra questi due mondi così diversi che, negli ultimi 20 anni del 900, si è affermata la moda italiana nel mondo.
L’impero delle grandi firme italiane
Negli anni ‘70 il rapporto tra stilismo e industria assunse connotati particolari, si istaurarono i primi licencing, ovvero i primi rapporti di licenza del marchio. Questi prevedevano l’esclusione dell’impresa dalle scelte stilistiche del marchio e, di contro, l’esclusione dello stilista dalle scelte produttive dello stilista. Così da prime donne autonome e inavvicinabili gli stilisti si trovano a fondere, in modo ancora più netto, la loro arte con il sistema della produzione industriale.
Il 24 luglio 1975 nasce la Giorgio Armani spa, viene lanciata una linea di "prêt-à-porter" maschile e femminile, nascono undici nuovi punti vendita e lo stilista firma il suo primo contratto con la GFT. Nel 1981 fa un nuovo balzo in avanti: presenta il suo primo profumo, apre negozi in tutto il mondo e il suo nome diventa ufficialmente la firma di un grande marchio mondiale.
Tra i grandi nomi italiani nel mondo si fa strada anche quello di Valentino Clemente Ludovico Caravani, in arte Valentino. Dopo aver lavorato per anni nella sartoria di Guy la Roche, capì che la sua strada era la moda e così, con l’aiuto finanziario del padre, aprì un atelier in via Condotti, la via più “in” di Roma in quegli anni. Il 19 luglio del 1962 il marchese Giorgini gli concede l’ultima ora dell’ultimo giorno alla sfilata di Palazzo Pitti: i suoi vestiti riscuotono un successo strepitoso tra i buyer americani e Vogue Francia dedica, per la prima volta, ben due pagine al nuovo stilista italiano. È nata una stella: all’inizio degli anni ‘70 è famoso in tutto il mondo, Andy Warhol gli fa un ritratto, e alla fine di quel decennio anche lui allarga il suo nome e stile ad altri prodotti come profumi e accessori. A metà degli ‘80 viene insignito dal presidente Pertini dell’”onorificenza di grande ufficiale dell’ordine al merito della Repubblica italiana”. Nonostante il suo nome sia legato ai prodotti più disparati, tra cui le piastrelle d’arredamento, Valentino non si è mai sentito mercificato perché per lui la creazione risiede in tutto.
Laura Biagiotti ricorda che a Milano con Albini, Missoni, Krizia (che ha inventato l’italian style) e successivamente Armani e Ferrè avevano creato un gruppo, una forza (anche grazie a Beppe Modenese), per presentare sulle passerelle un prodotto che fosse più aderente alla realtà. Sarà proprio lei la prima ad affrontare nuovi mercati e ad andare in Cina nell’88, e poi, dopo la caduta del muro, a Mosca nel grande teatro del Cremlino. Nascono così molte joint venture e collezioni di seconda linea più commerciali. Sarà Luciano Soprani a diventare in quegli anni il più grande stilista industriale italiano.
Quando gli stilisti decisero di estendere il proprio marchio agli accessori, venne consacrato l’impero della moda italiana nel mondo. Questo fenomeno, infatti, inizialmente era un fenomeno prettamente italiano, solo successivamente venne copiato anche all’estero. Fu una grande boccata di ossigeno per la moda perché le signore e i signori capirono che il complemento era fondamentale per rendere bello un abito, per creare un look speciale. Il mercato si allargò ulteriormente, divenne globale.
Secondo Micol Fontana, ormai la moda poteva vendere anche le noccioline, proprio perché tutto faceva moda. E La moda lanciava tutto.
Oggi
La moda italiana al momento è uno dei settori dell’export più in salute, dopo la crisi internazionale post 2001, chiuderà i bilanci 2006 con il 3% in più. I tassi di crescita maggiori sono stati riscontrati in Cina e in Russia. Il Made in Italy viene da molto lontano: è il frutto di una lunga e fertile cooperazione e “cross fertilisation” tra cultura, arte, artigianato, abilità manifatturiera, territorio e memorie storiche. È grazie a ciò che negli anni l’industria della moda italiana ha costruito la più importante filiera d’occidente, e per quanto i Cinesi cercheranno di copiarla facendo una spietata concorrenza, non riusciranno a raggiungere i suoi stessi obiettivi.
L’Italia infatti ha un sistema integrato, un distretto della moda, fortissimo, proprio perché ha radici lontane. Nella sua storia annovera indubbiamente tantissimi talenti individuali, ma questo successo è dato soprattutto dalla flessibilità di poter creare i propri tessuti, le proprie stampe, di poter avere degli accessori in linea con lo stile della collezione, e questo proprio grazie al fatto che dal filato alla tessitura, dalla tintura al taglio, alla confezione, e a tutto il mondo degli accessori, il prodotto è tutto Made in Italy.
Quindi, sebbene il modello italiano ormai sia diventato riproducibile ed è chiaro che l’industria della moda non può vivere solo del vantaggio competitivo, è anche vero che il nostro sistema ha in seno qualcosa di inimitabile, unico e raro: quelle che gli storici chiamano “le risorse intangibili”, cioè quell’insieme di conoscenze, competenze, rapporti che le imprese hanno sviluppato e creato nel tempo, quel connubio tra creatività e tecnologia che i mercati non posseggono e che quindi costituiscono il vero patrimonio dell’impresa.
La ricostruzione postbellica del nostro paese fu permessa soprattutto grazie al piano Marshall varato nel 1947 e agli aiuti finanziari americani diretti alle industrie per un totale di 125 milioni di dollari. Per quanto riguarda il tessile furono inviate all’Italia 34.000 tonnellate di cotone grezzo, ma per consentire la completa apertura delle fabbriche, il governo fu costretto a importarne altre 50.000, mentre i privati ne comprarono altre 170.000.
L’Italia comunque si trovava a dover competere con veri colossi fuori dai suoi confini, inizia quindi a importare conoscenze e macchinari, e sull’onda della rinascita economica dà vita a grandi imprese. Secondo la stilista Micol Fontana furono proprio le donne a dare un forte impulso alla rinascita dopo la guerra, in quanto erano fortemente determinate a far rivivere il settore tessile, che proprio in quegli anni venne inglobato da quello della moda.
Erano gli anni in cui gli americani presero possesso di Cinecittà. Il cinema da quel momento portò molto lavoro alle sarte, in particolar modo alle sorelle Fontana che lavoravano soprattutto per l’aristocrazia romana, ma anche ai nuovi stilisti nascenti quali: Emilio Federico Schubert, Valentino, Roberto Cappucci, Iole Veneziani, Biki, Germana Marucelli. Molti sarti poi venivano dalle campagne o da altre città verso Roma e Milano, dove nacquero le sartorie di Fonticoli, Fonda, Brioni, Litrico, Tritapepe, Cavaliere.
Le botteghe coincidevano spesso con la casa. Il primo atelier Fontana era in via Emilia, una traversa di via Veneto, era lì che ricevevano i registi e gli attori famosi. Nonostante i passi avanti della moderna industria tessile, la maggior parte degli italiani continuava però a farsi fare i vestiti in sartoria. I meno ricchi poi indossano vestiti fatti in casa: quasi in ogni abitazione, infatti, c’era una macchina per cucine e qualcuno che la sapesse usare. L’abbigliamento era un bene che passava di mano in mano: riadattato e rimodellato per essere indossato nuovamente. Non si può parlare quindi ancora di un’industrializzazione massiccia. Però l’Italia scopre il fascino dell’alta moda e il boom degli anni ’50 le permette di andare in competizione con paesi come la Francia, da sempre il leader del settore.
Il primo défilé collettivo al quale si fa risalire la nascita della moda italiana è avvenuto a Firenze: il marchese Giovanni Battista Giorgini, il 12 febbraio 1951 organizzò nella sua casa fiorentina in via dei Serragli, il "First Italian High Fashion Show". Alla base di questo evento ci fu una grande intuizione: riuscì a convincere i presidenti dei magazzini americani a venire a Firenze il giorno dopo le sfilate di Parigi. Mise insieme dieci stilisti con diciotto modelli a testa, tra i partecipanti ci furono le sorelle Fontana, Emilio Schubert, la casa di moda Fabiani, Noverasco, Veneziani, e anche Germana Marucelli, anticipatrice del new look di Christian Dior.
Anche per Giorgini fu un momento estremamente emozionante: “ero in un angolo della sala col cuore in gola per questi compratori, questi esperti di moda che venivano da Parigi, avevano appena visto tutte le collezioni di Parigi e non potevo vedere dalle loro espressioni se questa collezione piaceva o non piaceva. Terminata la sfilata mi avvicinai per sapere la loro reazione: entusiasti. Questo gruppo di cinque compratori tornarono in america con tale entusiasmo che quando feci la seconda sfilata vennero dall’america in 300!”
Fu un successo formidabile quindi e in seguito, per le sfilate successive, il comune di Firenze, con un’idea illuminata, permise l’utilizzo di Palazzo Strozzi prima e Palazzo Pitti poi, dove nacque la famosa sala bianca. Le sfilate erano ben congegnate, emozionanti: la passerella era sempre la stessa, era lo stile del sarto a cambiare.
Il grande boom
Il fenomeno commerciale della moda non esisteva prima delle sfilate di Giorgini, le case di alta moda, infatti, vendevano solo ai privati. L’esempio più importante di impresa che si costituisce negli anni successivi alla seconda guerra mondiale è rappresentato dal gruppo GFT (Gruppo Finanziario tessile). Nato prima della guerra, negli anni ‘50 subiva uno scontro interno tra la vecchia generazione e la nuova che vedeva nel prodotto confezionato grandi possibilità di crescita. Furono i giovani ad avere la meglio e grazie a Giorgio Rivetti presero una serie di iniziative per unificare il mercato italiano della distribuzione e produzione del prodotto confezionato. I prodotti venivano distribuiti nei Magazzini Marus (magazzini, ragazzi, uomini e signore) e, compiendo la più grande operazione di rilevazione antropologica della popolazione italiana dopo quella dell’esercito, la GFT creò il sistema delle taglie. Fu un passo straordinario che venne accompagnato dalla politica del prezzo imposto. Il gruppo torinese Gft (Gruppo Finanziario Tessile), controllato dalla holding Hdp, chiuderà in via definitiva nel febbraio 2003, cedendo i marchi Facis, Valentino e Sahzà.
Intanto dal ’58 al ’63 il grande boom fece aumentare i consumi del 5%. Solo nel 1958 vennero prodotti 300.000 televisori, 369.000 automobili, 700.000 radio, e ci fu un aumento del 10% degli elettrodomestici sul mercato. L’esportazione passò da un passivo di 187 miliardi, a un attivo di 124,3 miliardi. Il miracolo economico però nascondeva anche delle ombre: in quegli anni il fenomeno dell’emigrazione dalle campagne alle città e dal sud al nord era altissimo, gli immigrati nel solo settentrione furono 300.000.
Quindi proprio mentre cresceva l’industri tessile, la domanda si spostava verso altri mercati, ma questo non proibì a molti stilisti di creare l’alta moda pronta, ovvero il prodotto di alta moda confezionato ad hoc per essere fruibile non solo da un’elite. Il primo a intraprendere questa strada fu lo stilista francese Pierre Cardin, ma ben presto molti atelier seguirono questa idea innovativa. Nasce così il prêt-à-porter italiano. Le boutique più importanti iniziarono a vendere non più abiti su misura ma confezionati in taglie, adattabili quindi a tutti i clienti e a costi più bassi. La qualità dei vestiti era comunque molto alta, grazie anche ai materiali usati: venivano utilizzate infatti stoffe pregiate, seconde solamente a quelle inglesi.
È in questo periodo, in questo meccanismo commerciale, che si sviluppa il nuovo settore pubblicitario che porta alla nascita dell’editoria specializzata in moda.
Gli anni ’60 e ’70, si afferma il Made in Italy
La modella Mirella Pettini ricorda questi anni come anni meravigliosi, in cui il rapporto con gli stilisti emergenti come Valentino e Armani erano molto validi perché si era ancora in pochi e gli stilisti si occupavano direttamente anche della pubblicità. Le modelle erano diverse da quelle di oggi, si truccavano e pettinavano da sole, inoltre non c’erano competizione tra di loro in quanto tutte cercavano di mantenere la propria personalità, di avere il proprio stile. Il gruppo moda, in qualche modo, era un gruppo di amici.
Alla fine degli anni ‘60 la contestazione politica coinvolse anche il mondo della moda. La rottura col passato divenne evidente, soprattutto tra i giovani. Nacquero movimenti come gli yuppie che rivoluzionarono completamente il modo di essere e di apparire. La stilista londinese Mary Quant ha individuato nella minigonna il simbolo della moda di quegli anni. La minigonna infatti voleva dire giovinezza, libertà, movimento. Improvvisamente le donne ebbero infatti la gioia di godere del loro vestito, senza dargli troppa importanza.
Il ’68 investe anche l’Italia e negli anni ’70 gli operai iniziarono una serie di scioperi e di occupazioni delle fabbriche. La stilista Micol Fontana non ricorda affatto bene quegli anni in cui a causa di scioperi proprio nei giorni precedenti alle sfilate spesso non fecero in tempo a spedire le collezioni e furono costrette quindi a chiudere la loro fabbrica ai Castelli.
Nonostante l’ammodernamento i modelli di produzione tessile entrarono però in crisi e ci furono profonde modifiche a livello mondiale nell’organizzazione della produzione. Molti paesi superarono questa crisi decentrando la produzione: gli Usa nelle aree satellite del Centro America, la Francia nell’Africa del nord, la Germania nell’Est europeo. Ma l’Italia non aveva aree satellite e così fu costretta a ripiegare proprio nella struttura interna industriale la quale da quel momento presentò una specifica peculiarità: uno dei pilastri portanti era rappresentato dal sistema diffusissimo delle piccole e medie imprese.
Fu una soluzione straordinaria, in quanto portò innovazione nella produzione grazie alla flessibilità, ovvero alla capacità di cambiare rapidamente il genere produttivo. Artefice di questa idea fu Marco Olivetti il quale rivitalizzò l’industria tessile grazie al rapporto instaurato con gli stilisti e in particolare con Giorgio Armani. Allenza tra stilismo e industria e quindi tra creatività e imprenditoria, segna così la nascita del Made in Italy. È proprio grazie all’incontro e alla collaborazione tra questi due mondi così diversi che, negli ultimi 20 anni del 900, si è affermata la moda italiana nel mondo.
L’impero delle grandi firme italiane
Negli anni ‘70 il rapporto tra stilismo e industria assunse connotati particolari, si istaurarono i primi licencing, ovvero i primi rapporti di licenza del marchio. Questi prevedevano l’esclusione dell’impresa dalle scelte stilistiche del marchio e, di contro, l’esclusione dello stilista dalle scelte produttive dello stilista. Così da prime donne autonome e inavvicinabili gli stilisti si trovano a fondere, in modo ancora più netto, la loro arte con il sistema della produzione industriale.
Il 24 luglio 1975 nasce la Giorgio Armani spa, viene lanciata una linea di "prêt-à-porter" maschile e femminile, nascono undici nuovi punti vendita e lo stilista firma il suo primo contratto con la GFT. Nel 1981 fa un nuovo balzo in avanti: presenta il suo primo profumo, apre negozi in tutto il mondo e il suo nome diventa ufficialmente la firma di un grande marchio mondiale.
Tra i grandi nomi italiani nel mondo si fa strada anche quello di Valentino Clemente Ludovico Caravani, in arte Valentino. Dopo aver lavorato per anni nella sartoria di Guy la Roche, capì che la sua strada era la moda e così, con l’aiuto finanziario del padre, aprì un atelier in via Condotti, la via più “in” di Roma in quegli anni. Il 19 luglio del 1962 il marchese Giorgini gli concede l’ultima ora dell’ultimo giorno alla sfilata di Palazzo Pitti: i suoi vestiti riscuotono un successo strepitoso tra i buyer americani e Vogue Francia dedica, per la prima volta, ben due pagine al nuovo stilista italiano. È nata una stella: all’inizio degli anni ‘70 è famoso in tutto il mondo, Andy Warhol gli fa un ritratto, e alla fine di quel decennio anche lui allarga il suo nome e stile ad altri prodotti come profumi e accessori. A metà degli ‘80 viene insignito dal presidente Pertini dell’”onorificenza di grande ufficiale dell’ordine al merito della Repubblica italiana”. Nonostante il suo nome sia legato ai prodotti più disparati, tra cui le piastrelle d’arredamento, Valentino non si è mai sentito mercificato perché per lui la creazione risiede in tutto.
Laura Biagiotti ricorda che a Milano con Albini, Missoni, Krizia (che ha inventato l’italian style) e successivamente Armani e Ferrè avevano creato un gruppo, una forza (anche grazie a Beppe Modenese), per presentare sulle passerelle un prodotto che fosse più aderente alla realtà. Sarà proprio lei la prima ad affrontare nuovi mercati e ad andare in Cina nell’88, e poi, dopo la caduta del muro, a Mosca nel grande teatro del Cremlino. Nascono così molte joint venture e collezioni di seconda linea più commerciali. Sarà Luciano Soprani a diventare in quegli anni il più grande stilista industriale italiano.
Quando gli stilisti decisero di estendere il proprio marchio agli accessori, venne consacrato l’impero della moda italiana nel mondo. Questo fenomeno, infatti, inizialmente era un fenomeno prettamente italiano, solo successivamente venne copiato anche all’estero. Fu una grande boccata di ossigeno per la moda perché le signore e i signori capirono che il complemento era fondamentale per rendere bello un abito, per creare un look speciale. Il mercato si allargò ulteriormente, divenne globale.
Secondo Micol Fontana, ormai la moda poteva vendere anche le noccioline, proprio perché tutto faceva moda. E La moda lanciava tutto.
Oggi
La moda italiana al momento è uno dei settori dell’export più in salute, dopo la crisi internazionale post 2001, chiuderà i bilanci 2006 con il 3% in più. I tassi di crescita maggiori sono stati riscontrati in Cina e in Russia. Il Made in Italy viene da molto lontano: è il frutto di una lunga e fertile cooperazione e “cross fertilisation” tra cultura, arte, artigianato, abilità manifatturiera, territorio e memorie storiche. È grazie a ciò che negli anni l’industria della moda italiana ha costruito la più importante filiera d’occidente, e per quanto i Cinesi cercheranno di copiarla facendo una spietata concorrenza, non riusciranno a raggiungere i suoi stessi obiettivi.
L’Italia infatti ha un sistema integrato, un distretto della moda, fortissimo, proprio perché ha radici lontane. Nella sua storia annovera indubbiamente tantissimi talenti individuali, ma questo successo è dato soprattutto dalla flessibilità di poter creare i propri tessuti, le proprie stampe, di poter avere degli accessori in linea con lo stile della collezione, e questo proprio grazie al fatto che dal filato alla tessitura, dalla tintura al taglio, alla confezione, e a tutto il mondo degli accessori, il prodotto è tutto Made in Italy.
Quindi, sebbene il modello italiano ormai sia diventato riproducibile ed è chiaro che l’industria della moda non può vivere solo del vantaggio competitivo, è anche vero che il nostro sistema ha in seno qualcosa di inimitabile, unico e raro: quelle che gli storici chiamano “le risorse intangibili”, cioè quell’insieme di conoscenze, competenze, rapporti che le imprese hanno sviluppato e creato nel tempo, quel connubio tra creatività e tecnologia che i mercati non posseggono e che quindi costituiscono il vero patrimonio dell’impresa.
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